Racconto di viaggio in Etiopia per "Turisti per scelta"
Arrivati ad Addis Abeba quasi ci si vergogna per le imprese non certo gloriose degli italiani alcuni decenni fa proprio in quei luoghi. Un amico ci porta a mangiare in un ristorante dove abbiamo il primo approccio con la n’jera, piatto tipico (ed è anche l’unico) che poi ci sarà servito ogni giorno, a pranzo e a cena.
Somiglia ad una grande crepe, è di forma circolare e su di essa vengono versati dei condimenti, come legumi, pezzetti di carne o pesce, salsine varie, verdure, tutto molto pepato. Si ritaglia poi con le mani, si raccoglie del condimento facendone un boccone che si introduce in bocca sempre rigorosamente con le mani. Se si vuole si può richiedere anche del pane, che è piuttosto buono.
L’indomani da Addis ci trasferiamo con dei fuoristrada (i mezzi migliori per viaggiare in Africa dove le strade sono quasi sempre in terra) a Shashamene; stiamo attraversando la Rift Valley. Francesca ci spiega che nella Rift, per la presenza dei vulcani, l’acqua è troppo ricca di fluoro per cui i denti diventano neri e ci si ammala alle ossa. Shashamene è una cittadina posta alla confluenza delle due strade principali d’Etiopia, che congiungono il nord e il sud, l’est e l’ovest del Paese. La città è brutta, caotica, sporca. Nelle strade circolano numerosi tuk-tuk, mezzi importati dalla Cina. Molti i cartelli pubblicitari della Coca Cola e della Pepsi. Anche la plastica è abbastanza presente. Insomma, l’effetto catastrofico della globalizzazione.
Vediamo anche qualche edificio in costruzione: impalcature da brivido, pericolosissime. Altro che norme di sicurezza!
A Shashamene si va in un albergo; impossibile fare qualsiasi confronto con le nostre strutture (anche le peggiori). La corrente elettrica non era continua, come nel resto della città, niente acqua calda, doccia rotta.
Andiamo a visitare dei pozzi d’acqua realizzati dalla LVIA e in Etiopia un pozzo significa davvero vita per centinaia di persone. Sono pozzi scavati a mano e raggiungono una profondità che va dai 10 ai 15 metri. Ci viene detto che è molto meglio fare opere semplici ma in modo capillare piuttosto che opere faraoniche. I pozzi, una volta realizzati, vengono affidati alle stesse comunità che usufruiscono dell’acqua; sono quindi gli stessi cittadini del villaggio che si autogestiscono, assumendosene così la responsabilità. Scavare un pozzo significa evitare che donne e bambini facciano 4-5 ore di cammino al giorno con i bidoni per andare a prendere l’acqua; significa bere acqua potabile e non ammalarsi di tifo, colera, ecc. (oggi l’età media è di 46 anni circa); significa potersi lavare; significa dedicare quelle 4-5 ore ad altre attività. Per esempio, i bambini possono frequentare delle lezioni e combattere quindi l’analfabetismo.
Insomma, l’acqua è alla base della vita e della civiltà di un popolo.
Ogni volta che ci fermiamo in un villaggio, arrivano nel giro di pochi minuti centinaia di bambini, ragazzi e adulti. Sono curiosi di vederci. I bambini hanno gli occhietti e il nasino sporchi e lì le mosche, africane anche loro e quindi assetate, cercano di succhiare un po’ di liquido. I bambini spesso sono raffreddati perché in questa regione siamo sull’altopiano, a più di 2000 metri, e il clima non è affatto africano come noi potremmo immaginare.
Le loro manine sono fredde e gli indumenti, il più delle volte a brandelli, non bastano a coprirli e a difenderli dal freddo. Tutti, nonostante i disagi che vivono, ci hanno regalato la loro serenità, il loro sorriso, il loro calore.
Altro spostamento: si va nella regione sidama, dove ci sono le coltivazioni di caffè, in direzione della Somalia. Il paesaggio è suggestivo: sempre più sicomori (alberi bellissimi), acacie, prati immensi, case di fango e tugur (capanni costruiti con il bambù e le foglie di falso banano), vegetazione varia con colture integrate (falsi banani, caffè, piante da frutta, bambù, canne da zucchero, kat).
Il kat è una pianta le cui foglioline vengono masticate per alleviare i morsi della fame e la fatica del duro lavoro, spesso causa però una forte dipendenza.
La strada è di colore rosso perché la terra è ferrosa, non ci sono curve e man mano che camminiamo, respirando polvere, incontriamo centinaia di persone a piedi. In Africa si sta ai bordi delle strade, accovacciati o in movimento. Tutti camminano portando qualcosa in mano o sulle spalle o sulla testa: bidoni con l’acqua, frutta o verdura comprate o da vendere al mercato, kat, legna.
Assieme alle persone tanti asini, anche loro carichi, talvolta soli, tanto hanno memorizzato la strada da percorrere.
Andiamo a visitare un tugur: all’esterno abbiamo l’impressione di trovarci in un bellissimo villaggio turistico. I tugur vengono costruiti nei prati, con piante alle spalle e cactus come recinzione; all’interno odore acre di fumo perché viene acceso il fuoco per evitare che il bambù possa fare i fiori ma questo fumo danneggia i polmoni, soprattutto dei bambini. Dentro i tugur si assiste alla promiscuità tra esseri umani e animali. “L’arredamento” è molto minimalista; la vita si svolge quasi interamente fuori. Ho provato ad immaginare com’è vivere in questi luoghi nel periode delle piogge, quando alla polvere si sostituirà il fango.
I bambini ci danno la loro mano, stringono la nostra come a dimostrarci la loro gioia perché siamo lì con loro, ma siamo noi ad essere grati a loro per questi momenti.
Le ragazze sono molto belle, talvolta portano sulle spalle dei bimbi, non capiamo se sono i loro fratellini o i loro figli. In Africa ci si sposa molto piccole.
Si prosegue, ancora vegetazione ma ci viene detto che si tratta di siccità verde: non ci si nutre certo di caffè o di kat. Apprendiamo anche che i produttori di caffè costituiscono delle cooperative, le quali sono iscritte ai sindacati, che hanno il ruolo delle organizzazioni di categoria. Essi controllano la qualità del caffè, l’andamento del mercato, il prezzo. Per fortuna ancora non sono arrivate le multinazionali.
La prima qualità viene esportata, in Etiopia resta il caffè meno pregiato. La preparazione del caffè è un rito vero e proprio: lo tostano e lo macinano al momento dinanzi agli ospiti che così possono assaporarne tutto il profumo, poi viene messo in una caffettiera piena d’acqua che è poggiata sul fuoco e successivamente versato nelle tazzine fino a traboccare.
Si prosegue ancora lungo la stessa strada, in cui ci sono lavori in corso. È troppo larga, sicuramente si svilupperà il commercio e ci saranno più servizi, ma c’è il rischio che fra qualche anno scompariranno i tugur, che ci sarà una contaminazione della cultura, un andirivieni di camionisti e di conseguenza l’insorgenza di malattie veneree, in particolare dell’AIDS.
Meta successiva le cascate di Loghita. Arriviamo al crepuscolo, è un luogo molto suggestivo, siamo alla confluenza di due fiumi che formano due cascate. È strano sentire in Africa il rumore assordante dell’acqua, che ci farà compagnia per tutta la notte. Dormiamo infatti in questo posto, dentro dei tugur. Ci sembrano bellissimi, non vediamo l’ora di lavarci, di toglierci di dosso la polvere… ma nel lavandino non c’è il rubinetto… la doccia è impraticabile… lo scaldabagno col collegamento elettrico spezzato... e la luce molto molto fioca. Che fare? Mi vengono in soccorso le salviettine imbevute portate dall’Italia. L’Africa è anche questo.
Solo al settimo giorno alcuni del gruppo riusciranno a farsi una bella doccia calda, altri meno fortunati si laveranno in Italia. Tutti comunque eravamo contenti di aver fatto un itinerario non turistico e di aver lasciato qualche birr (la moneta etiope) alla gente locale, non alle multinazionali.
L’indomani si fa ritorno ad Addis.. È il giorno in cui si festeggia l’anniversario della nascita di Maometto ed è festa nazionale; ci dicono che anche i musulmani condividono le feste dei cristiani.
Un bellissimo esempio di tolleranza e di rispetto, un insegnamento che ricordo volentieri qui in Italia dove continuano tra le pareti delle aule le polemiche Crocifisso sì Crocifisso no.
Maria Teresa Langona
Questo racconto fa parte della seconda edizione di Turisti per scelta