Mi accingo a partire per quello che neanche a fine viaggio sarò riuscito ad identificare con un epiteto preciso; "giro della Sardegna", "giro in giro", "attraversata", "vacanza", non importa. Non ha mai importato definire quello che stavamo facendo quanto invece viverlo. E per questo forse la pianificazione del viaggio non ha seguito criteri precisi, ma un semplice e infantile "voglio andare da li a li, passando per qui e fin che ce n'è, ce n'è".
Mi accingo a partire per quello che neanche a fine viaggio sarò riuscito ad identificare con un epiteto preciso; “giro della Sardegna“, “giro in giro”, “attraversata”, “vacanza”, non importa. Non ha mai importato definire quello che stavamo facendo quanto invece viverlo. E per questo forse la pianificazione del viaggio non ha seguito criteri precisi, ma un semplice e infantile “voglio andare da li a li, passando per qui e fin che ce n’è, ce n’è“.
E in particolar modo i “li” del caso sono stati San Sperate da dove siamo partiti, passando per la costa ovest perché il “west is the best” fino a quando le gambe e la voglia ci hanno supportati.
In molti a fine viaggio ci hanno chiesto quanto ci siamo allenati, quanto ci siamo preparati, come organizzavamo le tappe… niente di più lontano dalla realtà. Siamo due ragazzi sani che hanno una vita NON sedentaria e abbastanza voglia di scoprire. Tutti e due venivamo da delle settimane non troppo tranquille causa chiusura lavori, spostamenti, consegne che hanno reso vana qualsiasi ipotesi di preparazione atletica.
1° TAPPA: FUNTANAMARE/IGLESIAS
La prima tappa è stata volutamente calcolata per RIPOSARCI, per rodare le bici e i bagagli, visto che per me era la prima esperienza. Senza indugi e riservando una preghierina al dio delle bici per non farci forare (almeno non subito) ci siamo diretti alla volta di Decimomannu dove abbiamo preso il treno per Villamassargia – Musei. I primi problemi sono scaturiti dalle ferrovie e non dai nostri cavalli ecologici. A voce ci dicono che in tutti i treni è possibile caricare le bici, ma in pratica nei piccoli vagoni che compongono un treno – che se fosse un film non sarebbe neanche un cortometraggio – non è così facile far stare le bici e quindi hanno dovuto aprire una serranda magica e farci caricare le bici sollevandole a più di un metro da terra (questa è stata la parte più stancante di questa prima tappa).
A Villamassargia la coincidenza per Iglesias aveva la forma di un bus dove avremmo dovuto caricare le bici con la concreta possibilità che durante il tragitto si potessero muovere nella stiva, quindi abbiamo optato per raggiungere la spiaggia senza rinchiuderci in nessun’altro baule di ferro scomodo e freddo. Siamo arrivati in spiaggia verso le 11.30, relativamente riposati e coscienti di aver preso le misure di quello che poi sarà il fulcro del viaggio.
Funtanamare è la parte più a nord di uno spiaggione che vede Plaghe e Mesu al centro e porto Flavia più a sud. È la prima spiaggia dell’iglesiente per distanza e facilità della strada. La spiaggia è piena e brillante e dotata di tutti gli optional che ci rendono il viaggio più facile. Docce gratis, chiosco aperto tutto il giorno per rifornimenti di acqua e cibo e un riparo da occhi indiscreti per la notte. Dobbiamo subito fare i conti con il caldo d’agosto, con il sole che a picco ti brucia i pensieri, ti secca le meningi evaporando ogni goccia della tua volontà. Quel sole è anche uno dei motivi per il quale non troveremo troppi biker nei giorni a venire e che scoraggia le macchine più antiquate dal superare i passi più impervi.
Brevettiamo un sistema di riparo dal sole utilizzando un telo che crea un tetto fra le due bici. Picchettato a terra può sfidare il vento più virtuoso. È la nostra casa, il nostro porto nella tempesta, il segno tangibile che siamo li, in quel momento, perché levate le tende e rimessi sopra le nostre bici non lasceremo tracce del nostro passare, se non qualche immagine rubata da una digitale o il ricordo sfumato di qualche turista che vedendoci ci ha fatto i complimenti per l’idea. Turisti che per fare pochi metri si portano dietro metà casa e noi che scaliamo montagne, ci portiamo dietro lo stretto necessario che viene utile anche per aiutare il prossimo. Alla fine del parcheggio un “caddozzone” rimane aperto fino alle 6 del mattino, contaminando l’aria con un sferzante odore di cipolle e un neon che, rianimati un attimo dalla stretta di morfeo, storditi e con gli occhi socchiusi, dava l’impressione di una navicella spaziale pronta a rapirci. Così non è stato e aprendo gli occhi ogni tanto, la prima notte sotto le stelle è morta all’alba.
2° TAPPA: FUNTANAMARE – BUGGERRU
Nelle nostre fantasie pre-viaggio credevamo di pedalare nelle ore più fresche, metterci in moto presto, arrivare presto, pranzo veloce…Non è successo niente di tutto ciò. Dopo una notte su un materassino la mattina ci metti un po’ a carburare, a rimettere in sesto la macchina che è il tuo corpo, ritirare i bagagli, ricomporre la bici, pulire la catena e dare un’oliata generale. Non siamo mai riusciti a partire prima delle 10, se poi, come nel caso di Funtanamare, non hai neanche un bar dove fare subito colazione, la ripartenza tarda ad arrivare.
Affrontiamo a freddo la salita per Nebida, ex località mineraria che veste i panni di passerella per le vacanze d’estate e deserto d’inverno. Con i suoi 200 m s.l.m. può vantare un bellissimo promontorio con vista mare e ristorante annesso e qualche percorso per trekking che arriva fino alle ex miniere. Colazione veloce (si pensava nei programmi) e ripartenza verso Buggerru.
Decidiamo molto ingenuamente di far visita alla spiaggia di Masua per qualche foto, per ammirare il paesaggio di una delle spiagge più belle e invidiate che abbiamo e così, dalla strada maestra, ci apprestiamo a percorrere una bellissima discesa che ci porta a mt 0. Per uscire da Masua dobbiamo affrontare una salita così ripida che riusciamo a fare a malapena 2 Km, un semplice antipasto di quello che incominciamo a capire sarà il nostro viaggio.
Spostando lo sguardo verso l’alto vediamo solo rocce e pietroni che avvolgono una sottile strada asfaltata. Alla partenza ho sottovalutato la pianificazione altimetrica del percorso e quindi ci accingiamo a risalire senza minimamente sapere cosa ci aspetti. Incomincio a prendere consapevolezza che se vedo un cartello col 13% di pendenza, non sarà una passeggiata. Sembriamo due piccoli Pollicino che lasciano gocce di sudore a terra per ritrovare la strada.
L’andatura è lenta e, dopo ore di marcia forzata, non si intravede ancora la fine. Il sole sferra ganci e montanti e le borracce sembrano essere bucate. Dicono che l’inferno è in basso, ma la strada per arrivarci è sicuramente fatta a immagine e somiglianza della SP83. Capiamo che c’è davvero caldo e che la salita è davvero ripida, quando a lato della strada vediamo tre ragazzi in panne attorno alla loro punto fumante che ci urlano: “SIETE PAZZI” e ci salutano poco convinti di ricontrarci ancora vivi.
Ma se la salita ci ha sfiancato e il caldo ci “ha cotto le cervella”, i 5 km che ci hanno portato a Buggerru sono stati un vero orgasmo. A Buggerru beviamo tutta l’acqua che riusciamo a ingurgitare nel primo bar sport che ci appare davanti. I pittoreschi abitanti del locale, vestiti con la divisa del cagliari, gozzovigliano attorno a dei tavolini, pontificando su arbitri e partite irregolari senza quasi fare caso a noi. Il paese respira aria di libertà. Sarà l’eccidio dei minatori del 1904 o le sculture di Pinuccio Sciola, ma questo piccolo e architettonicamente brutto paesello trasuda storia da tutti gli angoli.
Vengo fermato da una ragazza che mi chiede in inglese di dove fossi, ma scoprendo che ero sardo, forse incredula, strabuzza gli occhi e si dilegua come se avesse incontrato il diavolo e l’acqua santa, mentre un capellone Milanese si avvicina a noi per intavolare una discussione sulle bici e rivangare la sua gioventù spensierata da cicloturista in giro per il mondo, mondo che, al giorno d’oggi, lo ancora con una moglie e un figlio a un B&B con tanti bagagli e rimpianti a seguito.
La spiaggia è corta e profonda e il mare di un celeste quasi innaturale. Docce gratis, parcheggi gratis e un enorme posteggio per i camper dotato di fontanelle e accessi alla spiaggia fa da cornice a una sabbia scura e piena di sassi franati dalle pareti rocciose. .Sfruttiamo la vicinanza del paese per mangiare verdura e frutta e spegniamo le stelle accompagnati dalle percussioni di un camperista che sopra di noi duetta col vento avvolti da anelli di fumo e pensieri che dipingono il nostro futuro con ogni tipo di sfumatura.
3° TAPPA: BUGGERRU – PISCINAS
La mattina ci spostiamo a tappe sulla sabbia per evitare di affondare e sporcare la catena. È importante oliare e pulire bene gli ingranaggi per evitare rotture dovute al troppo sforzo. L’uomo dovrebbe avere la stessa attenzione per la natura di quella che ha per i suoi gioielli tecnologici, senza contare che l’iPhone si può ricomprare, la Terra no.
Per colazione finiamo in un grande bar che sembra la stazione centrale di Milano. Via vai di turisti già stressati dalle vacanze, indigeni locali che ringhiano, personale del bar inadeguato al lavoro, cappuccini che cadono sopra clienti ancora più indiavolati e ordinazioni che avvengono come i segreti di Fatima. Scappiamo via da quel posto subito dopo aver fatto un po’ di spesa per la notte. Cose semplici, cose di casa nostra, e via dritti verso l’ennesima salita senza possibilità alcuna di prevedere altimetrie, lunghezze e dislivelli impegnativi.
Costeggiamo la spiaggia di Portixeddu alla quale promettiamo una considerazione maggiore nel prossimo avvenire. Un bellissimo spiaggione stile Los Angeles dove il mare forma onde perfette per i surfisti. Sulla sinistra, appena passato Portixeddu incontriamo MC SULCIS, un baraccone di frutta e verdura che allargandosi è diventato un chiosco, un bar e un ristorante nel mezzo di pini marittimi e fichi d’india.
La strada attraversa il monte Cidro e la risalita verso la cima ancora una volta ci mette a dura prova. Davanti a noi alberi, dietro di noi ancora alberi infiniti che cingono una lingua arroventata di asfalto che non ci concede la minima pausa, non ci lascia respirare con la sua pressante dissociata vegetazione.
Oramai da ore in viaggio, senza la minima idea di quanto mancasse se non varie ipotesi legate al contatto visivo dei tornanti che sparivano e che, superati, diventavano come la linea dell’orizzonte sul mare, irraggiungibile. Nel mezzo della salita troviamo un cartello nel nulla che ci ripara dal sole e che pubblicizza il tempio di Antas, nel Sulcis più profondo. Il nostro riparo mistico, un enorme pezzo di ferro che viene buono più per ristorare noi pellegrini piuttosto che per indicare la via. Dietro di noi lingue di terra battuta si diramano nei monti come arterie pulsanti. Probabili percorsi per Mtb, probabili strade per viaggiatori curiosi, innumerevoli storie future da raccontare attorno al fuoco.
Arriviamo finalmente al cartello che ci mostra la fine della tortura. Siamo al m 492 del passo del Bidderdi, siamo al 492° metro, ma avremmo potuto anche leggere 4.920 senza capire, totalmente cotti dal sole che, senza pietà, ci ha cucinati piano, rendendo ogni pedalata una sfida, ogni passo un abbrivio verso la cima. Dobbiamo faticare ancora un po’ prima di arrivare al bivio per Piscinas, ma nei nostri cuori c’è aria di vittoria dove si insinua una fresca brezza del tutto inesistente che ci porta attraverso la casa dei minatori, Ingurtosu e il pozzo Gal verso dune di Piscinas.
Percorrendo una strada sterrata attraversiamo le affascinanti e impetuose dune che si ergono sopra di noi fino ad un altezza di 60 metri circa per poi tuffarsi in un mare blu sterminato. Il paesaggio che ci aspetta è uno dei pochi ancora incontaminati, dove l’uomo è entrato in punta di piedi riuscendo, per adesso, a non distruggere l’ennesimo miracolo che la natura ha deciso di condividere con noi. Due chioschi e un hotel sono gli ultimi baluardi di civiltà che puoi trovare, tenuti a debita distanza dall’acqua da una spiaggia pressoché infinita (circa 7 km del tutto inutilizzati). Ci rifocilliamo al chiosco cercando di abbassare la temperatura dei nostri corpi mentre aspettiamo amici e discutiamo di problemi irrisolvibili di una società che sembra ancora più irrimediabilmente insalvabile. Ci sono tavoli apparecchiati che parlano lingue diverse e ci sono birre vuote lasciate sotto il sole, ci sono potenti che non pagano e deboli che pagano per tutti e qualcuno ha scritto una bella canzone che brutta gente ascolterà.
Ed è la sabbia che hai mangiato durante il giorno a rendere più buono il sapore di questa birra, con la compagnia di un amico e un futuro che aspetta di essere scoperto. Spingendo la bici verso il tramonto due ragazze mi fermano per chiedermi informazioni.
Non so come, ma la finisco per raccontar loro ogni strada possibile, ogni percorso con relativo tempo di percorrenza e dettagli annessi. Dopo giorni di dieta sociale è bello avere qualcuno che ascolta i tuoi racconti. I rapporti sociali nella vita dovrebbero essere così, condivisione delle proprie esperienze senza filtri o timori legati alla razza, al sesso o la mera provenienza geografica, senza aver paura del prossimo e trattandoci come fratelli del Vietnam. Bisogna banchettare con le vite degli altri e condividere tutto. Abolire ogni sorta di vincoli, di proprietà intellettuale che ci isola dagli altri e fare l’amore tutti. Orge di emozioni nelle quali tuffarci e progredire. Basta musi lunghi, basta documenti e limiti geografici. Lasciamo lo stato ai politici e riprendiamoci la terra dove viviamo. Tendiamo la mano agli altri e smettiamola di scusarci dietro dogmi religiosi, bandiere politiche o scudetti. Basta divisioni, basta classi sociali, basta 740 e mercati finanziari. Mercati finanziari che bruciano soldi senza neanche scaldare la gente. Basta televisioni melliflue che anestetizzano le persone e finiamola una buona volta con questo menefreghismo idiota del voler vivere da soli senza preoccuparci del prossimo. Venite con noi per strada è qui che c’è la vita è qui che si fa la storia.
In seguito mi farò coraggio e offrirò un riparo alle due ragazze, due sconosciute che ci onoreranno della loro compagnia e arricchiranno questa cricca di sconosciuti che “cazzeggia” attorno a una lanterna in mezzo a centinai di tende sulla spiaggia. Piscinas è magica e non per le decine di stelle cadenti avvistate in un cielo totalmente visibile, e neanche per la bellezza del mare o del paesaggio che ti circonda.
Sembra che tutto li si sia fermato, sia possibile sotto un comune denominatore che è il rispetto per gli altri e per la terra che ti sta ospitando. La notte fila liscia grazie a una tenda presa in prestito che mi ripara dall’unica volta in cui il vento si è incazzato un pochino.
4° TAPPA- PISCINAS
Giornata di riposo e di rispetto per uno dei luoghi più belli del mondo, usato per lavarci nel suo limpido mare, mangiare e scambiare opinioni con turisti seduti allo stesso tavolo. La sera la spiaggia si svuota lentamente, tenuta in vita da questo tramonto che attira stupratori incalliti di foto ricordo e mette a nudo le verità che si celano dietro ogni maschera.
5° TAPPA: PISCINAS – PISTIS
Di prima mattina trasciniamo le nostre bici nel deserto fino a trovare una strada che ci permettesse di pedalare tanto basta per non diventare Tuaregh persi nel Sahara. Incrociamo sulla nostra strada un piccolo laghetto da guadare. Stranamente la strada risulta affollata e noi, con pazienza, aspettiamo che l’incrocio si svuoti.
Faccio segno a una macchina dietro di me di passare, io sarò lento, ma non ho fretta. “Vai, passa” e gli faccio segno col braccio. La signora mi restituisce il gesto e mi dice di attraversare. Passano giusto due secondi che mi sento il clacson incitarmi. Incredulo mi giro e la signora sbraita di muovermi. La civiltà fatta in persona. Vedi uno con una bici carica, in ciabatte mentre attraversa un guado in equilibrio sulle pietre e vedi bene di suonargli dietro. Signori e signori benvenuti in Italia, culla della civiltà e terra di idioti. Dopo un’oretta di terra battuta incontriamo l’asfalto che ci guida veloce attraverso la costa verde.
Alla nostra sinistra il mare dipinge sfumature verdi all’orizzonte dove il sole esalta la trasparenza e l’uomo approda famelico di vivere piccoli paradisi a misura e consumo di famiglie, pescatori, pensionati e chiunque non si è fatto incantare dalla pubblicità dei soliti luoghi turistici sardi, ma ha deciso di esplorare una zona che in quanto a servizi è carente, ma compensa con il suo essere semplice e incontaminato. Il sibilodei raggi echeggia in un silenzio infinito, come se l’universo stesso fosse sceso in terra per disegnare questa strada. Alle due sotto il sole l’ombra è come un porto in tempesta, rischia di dventare la tua tomba.
Gestiamo bene le pause e ci ripariamo quanto basta dal non prendere un’insolazione attraversando silenziosi ogni porta della percezione che la natura ci pone davanti. La strada sembra sprofondare nei monti noscondendoci agli occhi di tutti e restituendoci la vita a Capo Frasca, dove un bel bar accogliente serve degli ottimi panini rigeneranti e cortesia di contorno. La bici incomincia a fare i capricci. La camera d’aria non tiene la pressione e ogni 20 metri si sgonfia. Decidiamo di fare l’ultimo tratto spingendo le bici per non rischiare di danneggiare il cerchione.
Arriviamo a Pistis costeggiando case di lusso che si affacciano su un bella vista di lusso naturale. Dovrebbero prescrivere la vista di questo tramonto a ogni malato di depressione o disilluso dalla vita. C’è così tanta bellezza nella natura che ci circonda da rendere superflua qualsiasi altra cosa.
6° TAPPA -PISTIS – TERRALBA – TORRE GRANDE
Ringraziamo il comune di Pistis per averci fatto dormire con un faro puntato in faccia e dopo aver arrangiato alla meno peggio la bici, ci dirigiamo alla ricerca di un negozio dove trovare qualche ricambio. Purtroppo la perdida era causata da un foro all’altezza della valvol, e la camerad’aria di scorta presentava dei piccoli difetti di fabbricazione che rendevano pedalare un giro sulle montagne russe. Scoprima con rammarico che la solidarietà fra ciclisti non esiste anzi, sembrano tanti piccoli elfi in calzamaglie che non vedono l’ora di deriderti e vederti affondare.
La conferma ci arriva dal negozio dove compriamo le camere d’aria, che, dopo averci scoppiato la ruota sana gonfiandola a più non posso, ci ha chiusi le porte della cordialità in virtù della pausa pranzo.
Rattoppiamo i nostri puledri e ci dirigiamo verso Oristano, finalmente in piano, fino ad arrivare ad Arborea, dove i cartelli ingannevoli di un pub ci attirano per la pausa pranzo. Mentre ci rigeneriamo al tavolo, un ciclista sulla strada rovente come una mosca stordita in autunno ci guarda e ci saluta. È stato immediato, un attimo prima procedeva per la sua strada, e 5 minuti dopo era seduto con noi a gustarsi una bistecca e raccontarci dei suoi spostamenti. Lo so che appena due righe sopra mi lamentavo della poca solidarietù fra ciclisti, ma forse è un fatto di nazionalità, senza che di questo si faccia del semplice razzismo, fatto sta che Otzi, così si chiamava il nostro nuovo amico è spagnolo, gira da solo, e come noi ha molta voglia di tornare a casa ricco di conoscenze nuove. A fine pasto ci salutiamo e, purtroppo, ci dirigiamo nella direzione opposta a lui procedendo spediti in mezzo ai campi di Arborea, lo stagno di Santa Giusta e su, per tutta Oristano che saccheggiamo di un caribatterie solare e una pompetta per il mio materassino. Finalmente in piano alziamo il volume della velocità, correndo forse troppo ed arrivando a Torre Grande stremati ma contenti.
La Venice Beach Sarda ci accoglie con una bella doccia gelata free e birra ristoratrice a seguito in uno dei chioschi più in linea con la nostra filosofia di viaggio che abbiamo mai trovato, il night and day. La notte arriva presto, ma il sonno tarda leggemermente disturbato dal vociare dei passanti e, se pensate che un karaoke sia troppo per poter dormire, non sapete cosa sono due karaoke contemporaneamente che ti fanno l’effetto dolby surround.
7° TAPPA : TORRE GRANDE FUNTAMEIGA – SAN GIOVANNI DI SINIS
Ci viene ormai difficile sapere che giorno è, cosa accade nel mondo e, in parte, capire dove siamo. Iniziamo ad esplorare il golfo del Sinis fino ad arrivare a Funtameiga, formata da insenature ricavate dall’erosione dell’acqua che creano tanti piccoli squarci di paradiso dove puoi concederti il lusso di riposare.
Esploriamo un po’ la costa lasciando ferme le bici per paura che il terreno accidentato ci lasci a piedi e decidiamo di riposarci un attimo sotto il riparo di una pineta mistica alle pendici del mare. Purtroppo l’ombra ristoratrice nasconde all’interno “zanzare ipopotami” che rendono il soggiorno particolamente elettrico costringendoci ad abbandonare la postazione all’ora di punta.
Pizza a pranzo è un lusso che ci pemette di scampare qualche ora di sole e ricaricarci per una nuova eplorazione che ci porta sotto le rovine di Tharros. Passiamo da un mare che sembra una piscina privata ad un altra piscina provata dove ragazze e ragazzi vivono le loro vite ignari della fortuna che hanno nel poter stare lì a godersi la vita migliore che potessero desiderare. Ma le creature della notte sono in agguato e non lasciano neanche il tempo al sole di sparire all’orizzonte che, come vampiri ingordi, ci aggrediscono anzitempo.
Due ragazze si buttano ai nostri piedi per farsi prestare l’autan, ma non basta, non le allontana minimamente e sembra che neanche jeans e felpe riescano a farle desistere. Siamo accerchiati, assediati come soldati in trincea. Massacrati e storditi da quello che è stato il peggior attacco di zanzare tigre della nostra vita.
Ci sono esperienze che se non vivi non puoi comprendere fino in fondo, ma questa me la sarei risparmiata volentieri. Quello che le zanzare non hanno fatto è stato terminato dall’umidità, che rendeva difficile ripararsi senza appiccicarsi ai vestiti o qualsiasi altra cosa ti capitasse a tiro.
8° TAPPA: SAN GIOVANNI DI SINIS -IS ARUTAS – TORRE GRANDE
La mattina ci svegliamo sotto un altro assedio di zanzare. Scappare non è facile, non è rapido e tantomeno indolore. Dobbiamo portare bici e bagagli su per una salita sconnessa e con le maledette zanzare che continuano a non darci tregua. Lorenzo sembra aver preso un montante da Cammarelle, io, a prima vista, non presento segni, ma mi prude ovunque. Arrivati in cima mi aspetto di ricevere le 10 tavole con i comandamenti, ma ci sono solo le bici da rimontare e altra strada da fare.
Ci ristoriamo al primo chiosco aperto che ci serve la colazione dove proprietarie poco gentili sembrano essere disturbate da noi. Sembrano non percepire per niente la fortuna che hanno nel poter lavorare nel chiosco di Dio, accanto a un patrimonio artistico e culturare che da tutto il mondo vengono ad ammirare e studiare. Sono li, con i loro stracci a far della pulizia del loro locale motivo di frustrazione e penitenza, quando hanno la fortuna di poter vivere a contatto con la pura bellezza. La loro negatività sembra invadere ogni cosa, tanto che la sedia sulla quale sono seduto implode su se stessa incastrando il ginocchio in mezzo. Per un attimo ho creduto che, dopo aver superato pendii impervi, sole a picco e zanzare buldozer, mi sarei dovuto fermare per una dannatissima sedia di bambu in uno squallido chiosco, ma la bici sorretta da un po’ di volontà, qualche antidolorifico e un pizzicco di fortuna mi ha portato fino alla tappa successiva, l’incanto lucente della spiaggia di Is Arutas.
Sassolini di quarzo risplendono per la piccola spiaggia, diventata ancora più piccola perché nel corso degli anni turisti e locali l’hanno usata come negozio di souvenir per portarsi a casa i suoi gioielli.
Alle 10 del mattino è già piena, e, a fine giornata, scopriremo che ancora si dovrà riempire. La tattica è la solita, piazziamo il nostro campobase picchettando bene i teli per combattere un vento che sradica parecchi ombrelloni. Ci godiamo la giornata cercando di esplorare i dintorni di is arutas, altri capolavori naturali a uso e consumo di noi umani. La spiaggia è così piena che vengono piazzati anche ombrelloni in acqua. Una decina di Rumeni molto simpatici con mogli e figli a seguito colonizza i primi metri di spiaggia gettando nell’aria una cantilena delle loro parti che per parecchie ore farà da sottofondo alle vacanze di tutti. Altri ragazzi si avvicinano a noi per chiederci delle bici, delle nostre ibride, capire come fare, cosa fare e dove spingersi. Rimaniamo forse troppo ad ammirare il tramonto, quando le sorelle degli ippopotami killer arrivano nella spiaggia a pungolarci e ricordarci che è tardi, che dobbiamo ancora fare chilometri e che non abbiamo luci a seguito.
Nella salita (che non può mai mancare) per tornare alla strada principale le macchine ci superano schermandoci con i loro clacson antipatici. Ci osservano come fossimo gli ultimi superstiti a un cataclisma nucleare. “Sono solo bici” non preoccupatevi dico io. Ma all’incrocio le cose cambiano. Intasati come sardine gli affluenti di 4/5 spiaggie principali riversano centinai di macchine sul corso principale. Avere motori potenti, duecento marce, multijet o inttercooler ora non li aiuta più. Gli sfrecciamo accando cercando il percorso più rapido senza farci buttare giù. Il sole scende e l’adrenalina prende possesso di noi.
Incominciamo a correre inseguendo gli ultimi raggi di sole zigzagando fra le macchine, percorrendo la corsia di sorpasso e rientrando prima di incrociare auto in controsenso. Percorriamo i 15 km che ci separano dal bivio torregrande cabras in pochissimo tempo, per poi decidere di arrenderci e tornare nella zona notte saltando la sagra della bottarga che ci interessava, ma alla quale non saremo mai scampati nelle strade buie e piene di zanzare.
9° TAPPA – TORRE GRANDE – S’ANEA SCOADA – PUTZU IDU – SA MESA LONGA – SU PALLOSU – SA ROCCA TUNDA – ORISTANO
L’orologio biologico del viaggio sta giungendo a termine. Il nostro evitare a tutti i costi B&B e ripari artificiali si fa sentire. Sappiamo che abbiamo ancora qualcosa da dire a questo viaggio e decidiamo di fare un giro del golfo di Sinis per non perderci neanche una meraviglia che abbiamo a disposizione.
S’aena Scoada è uno di questi, un luogo incantevole. Strade bloccate al traffico rendono la zona tranquilla e transitabile, dove un’acqua che non ha niente da invidiare al mare dei Caraibi riflette i raggi di un altra giornata davvero calda. Gli oristanesi continuano a non fomentare un clima di cortesia. Tendono a portarsi appresso il fardello della vita che gli ostacola nei rapporti con il prossimo. Dovremmo cercare tutti di avere un Batman interno che combatte per noi lasciandoci liberi di vivere le nostre vite con gli altri. Bisogna obbligare la gente ad aprire gli occhi, smetterla di nascondersi dietro a degli occhiali da sole e venire fuori, in tutti i sensi. Lorenzo postula la teoria della buona azione, teoria semplice ma efficace.
Parte tutto da una buona azione, gratuita, forse inconsapevole che qualcuno compie nei confronti di qualcun altro. A catena le buone azioni colpiranno persona dopo persona, inondando di quella piccola gioia inconsapevole le persone che a loro volta saranno portate ad aiutare il prossimo e così via, come in un domino umano dove a cadere è solamente il cattivo umore. Arrangiamo le nostre vite alzando il volume al massimo mentre flussi di coscienza spingono le nostre bici verso la fine di questa piccola vacanza. Torniamo da Oristano in treno, per poi raggiungere le nostre rispettive case stanchi, ma felici.
Sono pedalate pesanti quelle che ci portano a casa. Un po’ malinconiche ma cariche di racconti che non sempre trovano spazio su un foglio. Siamo tornati a casa pieni di risposte a domande mai fatte, ma va bene così, prima o poi capire. C’è tutto un mondo che va scoperto fuori, un mondo bello e a volte brutto, un intero bacino di conoscenza che va affrontato con il giusto spirito e noi credo che ci siamo riusciti.
Marco Aledda
Il racconto fa parte dell’iniziativa “Turisti per scelta…(green)“