Cornovaglia: alla fine della Terra e ritorno

In Cornovaglia la sensazione dello spazio dà le vertigini, è capace di trasformare un uomo, sempre su un piedistallo in città, in una parte insignificante di un'ecosistema vecchio di millenni: qui i nostri cinque sensi sono così limitati da essere sopraffatti. La vista non può cogliere gli infiniti dettagli dei fiori dai mille colori, del cielo dipinto di nuvole, delle nere scogliere che affondano nel tumulto dell'acqua. L'udito non riesce a carpire un decimo delle voci che il vento porta dall'oceano, delle sfumature dei suoi cavalloni che si infrangono con fragore assordante sugli strapiombi di roccia. E l'olfatto rimane estasiato dalla freschezza dell'aria, dai profumi dell'erica che colora tutto di viola, dalla polvere d'acqua e sale che a tratti t'investe

Innanzitutto: spazio. È uno dei primi ricordi che affiorano quando penso a quella vacanza. Spazio libero, vuoto, verrebbe da pensare, dopo tutta una vita in cui il nostro sguardo inciampa continuamente su un’auto, un palazzo, un muretto, un cancello. E invece è il contrario: si tratta di uno spazio pieno, stracolmo, solo che di cose che non siamo abituati a considerare: stracolmo di prati e nuvole e rocce e fiori e uccelli e insetti e pesci. Uno spazio in qualche modo stracolmo di vita che aspetta solo di essere vissuta appieno, da chiunque si prenda la briga di andare fino a lì a reclamarla. Noi ci siamo andati, fino alla fine della terra: Land’s end.

In Cornovaglia la sensazione dello spazio dà le vertigini, è capace di trasformare un uomo, sempre su un piedistallo in città, in una parte insignificante di un’ecosistema vecchio di millenni: qui i nostri cinque sensi sono così limitati da essere sopraffatti. La vista non può cogliere gli infiniti dettagli dei fiori dai mille colori, del cielo dipinto di nuvole, delle nere scogliere che affondano nel tumulto dell’acqua. L’udito non riesce a carpire un decimo delle voci che il vento porta dall’oceano, delle sfumature dei suoi cavalloni che si infrangono con fragore assordante sugli strapiombi di roccia. E l’olfatto rimane estasiato dalla freschezza dell’aria, dai profumi dell’erica che colora tutto di viola, dalla polvere d’acqua e sale che a tratti t’investe.

Il cielo è immenso. Sconfina d’orizzonte in orizzonte in ogni direzione, senza meta né limiti. Siamo abituati a pensare che il mondo sia piccolo e continuiamo a ripetercelo, forse nel tentativo di autoconvincerci. Qui invece ci si rende conto di quanto sia grande. E meraviglioso.

Penzance è stata la nostra porta per la Cornovaglia. Vi siamo arrivati grazie a uno dei viaggi più belli che abbia mai fatto in autobus: i boschi si alternavano alle campagne rurali, con piccoli villaggi dalle casette tipiche. Alcune di queste hanno ancora il tetto di paglia e tutte le porte d’ingresso sono di un colore diverso: alcune rosse, altre viola, gialle, verdi, azzurre… Da ora in avanti ci sposteremo quasi esclusivamente a piedi di villaggio in villaggio, zaino in spalla e mappa alla mano.

Saint Michaels Mount

Isola di Saint Micheal’ Mount

Proprio accanto a Penzance c’è un‘isola un po’ particolare. Si chiama Saint Michael’s Mount e, proprio come la ben più celebre omonima francese, è collegata alla costa da un braccio di terra che con la marea del mattino viene completamente ricoperto. Per tutta la giornata resta un’isola, fino a quando a sera l’acqua si ritira e riemerge la strada che vi conduce.

Da lì abbiamo imboccato il South West Coast Path. È un sentiero che segue fedelmente tutta la costa della Cornovaglia per centinaia di chilometri. A neanche dieci metri di distanza ma almeno 50 di altezza, sulla sinistra, c’è l’oceano Atlantico, una distesa d’acqua interrotta solo dall’America, che urla ed esplode contro le millenarie scogliere impenetrabili; a destra solo erba a perdita d’occhio, su e giù per i monti, a sprazzi ricoperti di fiori gialli o viola, così fitti da rendere l’intera collina colorata, come la tela di un pittore daltonico. Anche l’acqua cambia tinta senza che te n’accorga: ora è blu e profonda, ora è grigia, plumbea, ora d’avorio. La natura si rinnova perpetuamente a un ritmo che è difficile seguire.

Verso Boscastle2

Poi, d’improvviso, la sera scende con una velocità che ha dell’incredibile. Ci ritroviamo ancora lungo il sentiero con la poca luce della sera e abbiamo il fiatone tanto stiamo correndo per arrivare da qualche parte. Probabilmente non è possibile fare free camping, ma la cima di questi promontori è così desolata che nessuno se ne accorgerebbe. Purtroppo però abbiamo dovuto lasciare la tenda a casa per poter mettere nello zaino più vestiti: solo quando siamo passati da Truro, la capitale della Cornovaglia, abbiamo visto una lavanderia, e poi dobbiamo portarci tutto sulle spalle.

Verso Lands End2

Verso Land’s End

Finalmente arriviamo in vista di Land’s end, la punta più a ovest di tutta la Gran Bretagna. Oramai è diventato un luogo turistico, con un albergo e qualche negozietto tirati a lucido. Qui c’è un cartello che indica le distanze dalle Isole Scilly (28 miglia), da John o’Groats (la punta più a nord-est del Regno Unito, a 874 miglia, pari al coast to coast americano), da New York (3147 miglia) e infine su un braccio del segnale sta scritto: “Your town” e a fianco c’è un punto di domanda.

Il giorno dopo mi offro di andare a prendere la colazione, ma mi perdo nelle intricate viuzze di St. Just, riuscendo a tornare all’ostello solo dopo due ore. Sbagliamo a comprare il biglietto dell’autobus (in realtà stavamo provando a padare meno del dovuto), ma l’autista si ricorda di noi e ci tocca scendere a Porthmeor. Impieghiamo altre 9 estenuanti ore per arrivare a St. Ives. Il sentiero però è di una bellezza straziante, con ponti di legno per attraversare piccoli ruscelli che si tuffano nell’oceano, semplici staccionate grezze che riportano il simbolo del National Trail (una ghianda), scogli abbandonati come relitti di antiche navi in mezzo all’acqua.

Ogni tanto, per quanto raramente, si incontra qualche altro viandante e ci si saluta gentilmente, scambiandosi informazioni sulle distanze ancora da percorrere. Su questa parte della costa spesso il sentiero è fiancheggiato da cespugli di more, e dopo un paio d’ore di camminata troviamo un allevamento di lama e uno di tori scozzesi. Tutto è brillante e St. Ives è un gioiello chiuso in una baia che di notte si illumina di mille colori.

Un altro di quegli autobus che attraversano i campi di foraggio e grano, separati solo da siepi rigogliose, ci porta fino a Coverack. Si tratta di un paesino incantevole che forse arriva a 300 abitanti e in cui tutte le case sono disposte lungo le tre o quattro vie principali. Tutte convergono alla locanda del paese, l’unico locale che abbiamo trovato per cenare. Prendiamo una zuppa del giorno dai sapori forti ma vellutati, la mia è verde di piselli e quella di Alice rossa di pomodoro. Ci sono tavolini minuscoli e divani polverosi, l’immancabile biliardo e il bersaglio per le freccette, con una grande lavagna di fianco su cui sono segnati i nomi dei giocatori abituali e i loro risultati. L’atmosfera è così familiare e accogliente che ci dispiace dover uscire per tornare alla nostra camera.

Golden hill

Il proprietario non ci ha dato le chiavi di casa, e quando vi arriviamo davanti troviamo in effetti la porta spalancata, proprio come nel pomeriggio quando ci siamo sistemati. Tutti i compaesani lasciano le porte d’ingresso aperte senza alcun timore, giorno e notte. La tranquillità che si respira per le strade fa risorgere una sensazione di ospitalità e fiducia che nelle nostre città abbiamo perso. Anche il sonno, qui, sfuma con leggerezza in splendidi sogni di barche a vela e sciabordio sugli scafi.

Al mattino una coppia di viaggiatori come noi ci offre un passaggio in macchina fino a Lizard, la punta più meridionale della Gran Bretagna, eccezion fatta per le isole Scilly. Sono tedeschi e hanno deciso di venire con la propria macchina, quindi non riescono a prendere bene le misure e guidano praticamente in mezzo alla strada. Lui è un prete luterano, mentre lei una professoressa di latino e greco al liceo. Sono di Colonia.

Quella fino a Mullion Cove è una fra le tratte più belle su cui abbiamo mai messo piede. La giornata è splendida e il sole illumina ogni cosa con spensieratezza. Qui e là fra le scogliere a strapiombo si apre una spiaggietta dalla sabbia bianca in cui l’acqua dell’oceano è turchese, così chiara e trasparente da far venir la voglia di berne un bicchiere. I pochi gabbiani lanciano i loro gridi e si lasciano accarezzare dal vento lieve, che come una mano li avvolge.

Boscastle

Per un istante, mentre attraversiamo una spiaggia bianca e compatta da cui sorge un enorme scoglio nero coperto d’erba, ci balena l’idea di fare il bagno. Nonostante non abbiamo il costume né asciugamani abbastanza grandi per il dopo, quell’opportunità ci attira come il canto di una sirena. Qui e là delle famigliole passano un sabato pomeriggio in riva al mare, i bambini giocano con la sabbia e due ragazzi entrano in acqua titubanti. Indossano una muta e comunque non stanno dentro per più di dieci minuti. Ancora oggi me ne pento, ma a malincuore ci allontaniamo e riprendiamo a camminare su per il pendio che ci riporta sulla cima delle scogliere.

Il pregio dei sentieri così immersi nella vegetazione che cresce selvaggia è che non potendo percorrerlo che a piedi, tutti sono obbligati a prendersi il tempo necessario per osservare e lasciare che ogni cosa entri loro negli occhi. Le nuvole si spingono l’un l’altra, cambiando in un lampo la luce tutt’intorno e assumendo le forme più diverse. Dopo qualche ora di cammino incrociamo una mandria di mucche libere di pascolare in uno spazio tanto ampio che non se ne vedono le recinzioni, sempre che ci siano. In quel silenzio, le loro mandibole che strappano i fili d’erba scricchiolano come i passi nella neve d’inverno.

Se mi avessero raccontato la particolarità di Padstow non ci avrei creduto. È una cittadina sulla costa nord della Cornovaglia, situata proprio dove il fiume Camel imbocca una grande insenatura e scorre nell’oceano. La distanza tra Padstow e la riva di fronte è di almeno un chilometro. La cosa impressionante è che ogni notte la marea svuota completamente tutta l’insenatura e torna a riempirla al mattino. La quantità d’acqua che viene spostata è imbarazzante: le barche che vi sono ormeggiate si accasciano sul fondo piegandosi su un lato e sembrano animali feriti, pesci arenati.

Padstow

Padstow

Poi, come per magia, quando ti svegli e guardi dalla finestra tutto è normale, barche a vela e pescherecci ondeggiano sulla superficie, turbati solo dal vento freddo. È un fenomeno del tutto comune qui, in Cornovaglia: quasi tutti i porti che abbiamo visto sono abituati a queste maree tanto repentine e massicce da lasciare le imbarcazioni appoggiate per terra, cose inutili. La differenza è che qui a Padstow non puoi immaginartelo fino a che non lo vedi. Quando la baia è piena non puoi credere che nel giro di poco più di un’ora sarà attraversabile a piedi, camminando.

Il padrone del bed&breakfast in cui dormiamo ci racconta che era un minatore, aveva lavorato in Sudafrica alla ricerca di diamanti (che, a quanto pare, ha trovato) e aveva smesso solo quando la picconata di un concorrente gli ha tagliato tutte le dita di una mano. Allora si era ritirato quassù e aveva aperto la sua nuova attività. Coltivava lui i pomodori che ci ha offerto per colazione, e le stesse galline che girovagavano per casa e in giardino avevano deposto le uova. Inoltre aveva un paio di gatti e una famiglia di corvi indiani, quelli che parlano, che ogni tanto venivano a fargli visita e che lui era lieto di ricevere e nutrire. Non li abbiamo mai sentiti dire niente, ma ci ha assicurato che sapevano qualche parola di inglese. Sotto alla panchina nel praticello di fronte alla porta d’ingresso, un troll di pietra emergeva dalla terra, facendo l’occhiolino.

L’ultima tappa del nostro viaggio è stata anche una delle più complete: oltre a paesaggi meravigliosi e panorami mozzafiato, infatti, Tintagel ha da offrire anche storia e leggende. Qui sorge, infatti, il primo ufficio postale del mondo. È un edificio di pietra, molto basso, del XIV secolo. Vedendolo, ci si domanda a chi mandassero le lettere gli abitanti del paese, visto che non c’erano altri uffici a cui potessero arrivare.

Si narra inoltre che proprio qui Uter Pendragon, padre di re Artù, abbia raggirato lady Ygraine, moglie di Gorlios, duca di Cornovaglia, con un tranello tessuto da Merlino e l’abbia dunque messa incinta.

Castello re Artù

Rovine del castello di Re Artù

Le rovine del castello esistono ancora e sorgono su un’isola fiabesca, collegata alla terraferma attraverso una scalinata che dà i brividi. A tratti, passeggiando nel silenzio spezzato solo dalle onde fragorose e dal vento potente, sembra che la luce si faccia d’oro e le pietre ancora in piedi s’illuminano di maestosità. Secondo gli archeologi, molto probabilmente si tratta di un monastero celtico del V secolo in cui i druidi eseguivano i loro rituali magici legati agli elementi della natura. Forse è per questo o forse sapere che in realtà niente nega con sicurezza che sia proprio il castello di re Artù, ma comunque l’aria che si respira qui è magica, carica di sensazioni antiche. In realtà sempre, camminando, si ha la sensazione che la Cornovaglia sia una terra estremamente antica.

Quando ormai non ci resta che tornare a casa, qualche lacrima annacqua la vista. Molte volte, di fronte a una casetta modesta sull’orlo di uno strapiombo ci siamo fermati a sognare una vita lì, in quel luogo fuori dal tempo, in cui non si respira veleno e non c’è bisogno dell’arte, perché ogni cosa è così bella. Tante volte abbiamo esitato prima di riprendere il sentiero invece di perderci nei campi, lasciando alle spalle un mondo che abbiamo costruito ma che è diventato inabitabile, che ci rigetta. Eppure alla fine eccomi qui, di fronte a questo compuer. E questo nonostante per settimane io sia stato depresso per le cose che avevo ancora negli occhi ma che erano in un altro luogo, a migliaia di chilometri di distanza. Ma oggi sono qui con la consapevolezza che la Cornovaglia sia sempre lì dov’è, uno spazio stracolmo di una vita che aspetta solo qualcuno che si prenda la briga di andare fino a lì a reclamarla.

Niccolò Panozzo

Il racconto fa parte dell’iniziativa “Turisti per scelta…(green)

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