Diciamoci la verità, se sotto l’aspetto emotivo e psicologico la precarietà in cui ci troviamo a vivere può avere effetti devastanti, sia su noi stessi che sulla società in cui viviamo, anche da un punto di vista più “pratico” la situazione non è rosea. In quasi totale assenza di autonomia alimentare e professionale, ossia in un contesto in cui si sta rischiando di dimenticare il saper fare, in cui l’autoproduzione di beni rimane per chi la vorrebbe praticare solamente un lontano miraggio, i “giovani adulti” di oggi devono affrontare l’elevata incertezza che spesso caratterizza le loro condizioni lavorative.
Vivere con i genitori fino a 30, 35 o anche più anni non è in molti casi una scelta, ma una necessità. Soprattutto quando, terminati gli studi universitari, non si accetta di diventare commessi o operatori di call centre, la massima aspirazione è quella di ottenere da una ditta qualunque un contratto a progetto o a tempo determinato. Ma, al di là delle gratificazioni o dei guadagni che si possono ottenere o meno nel presente, ciò che inquieta maggiormente sono le previsioni del futuro. Secondo una recente ricerca commissionata dalla Coldiretti, infatti, in Italia il 28% degli adulti fra i 35 e i 40 anni ha bisogno del sostegno dei familiari.
“Perché è disoccupato, cassintegrato, parzialmente o saltuariamente occupato, super occupato ma sottopagato. In ogni caso: preoccupato”, ha scritto il 22 maggio 2013 Massimo Gramellini sul blog che tiene su La Stampa, Buongiorno: “Sono i numeri di un terremoto sociale. I nonni mantengono i figli con i soldi che avrebbero voluto lasciare in eredità ai nipoti”. Torrenti di energia ristagnante, li definisce Gramellini: “Nel mucchio dei percettori di paghette ci sarà sicuramente qualche parassita indisponibile al sacrificio e una percentuale di illusi che si ostina a perseguire un corso di studi o un mestiere che la rivoluzione tecnologica ha confinato nel museo delle cere. Ma la maggioranza è composta da giovani o ex giovani disposti a tutto e condannati al niente“. Torrenti di energia ristagnante, appunto: “Il costo emotivo della crisi è superiore persino a quello economico. Penso all’umiliazione e al senso di fallimento di un adulto costretto a chiedere aiuto ai suoi vecchi”.
Ci penso anche io, e tutti i giorni. Anche perché ho circa vent’anni meno di chi scrive queste cose. E poi, che sistema sociale ci si può aspettare un domani, quando i pochi trentenni attuali che ne avranno la possibilità si ritireranno (seppure in ritardo rispetto ai propri padri) dal mondo del lavoro, nel momento in cui la maggior parte dei loro coetanei avrà versato contributi fiscali e sociali perlopiù bassi e discontinui? E ancora: quale rapporto fra diverse generazioni ci si può aspettare quando i giovani di inizio secolo, spesso non preparati ad affrontare la vita adulta e portati a rinviare all’infinito le decisioni più cruciali ed importanti della propria vita, si ritroveranno a ricoprire il ruolo di educatori? A cosa può portarci l’incapacità di fare progetti per il futuro? Sicuramente a nulla di buono. Che cosa si può fare, quindi, per ritrovare la fiducia nel futuro, nel presente e soprattutto in noi stessi che è andata sempre più scemando nel corso degli ultimi due o tre decenni?
Innanzi tutto si dovrebbe andare per gradi, e pensare all’immediato, ovvero alla nostra quotidianità. Per partire, si può iniziare a riscoprire abilità che, in molti casi, non ci sono state neppure insegnate. Si può, ad esempio, rivalutare il “saper fare”, che praticamente si basa sul recupero di alcune preziose capacità pratiche andate perdute negli ultimi decenni, da quando la società occidentale ha abbracciato il modello di sviluppo consumistico, ad altissimo impatto sull’ambiente, basato sul frenetico consumo di prodotti usa e getta, concepiti per durare il meno possibile ed essere rapidamente sostituiti, trasformandosi così in rifiuti costosi da smaltire, gravati da imballaggi ingombranti e altamente inquinanti. Perché? Per cavarsela anche con meno soldi, e per dare un senso a un sacco di tempo libero che ci si può ritrovare ad avere dall’oggi al domani, e che invece di essere speso davanti alla TV o ad una slot machine, può essere speso per imparare cose nuove e utili. Il tutto, inserendosi in reti di persone che non si sono arrese all’ondata di depressione generale che sta invadendo l’Europa da sud a nord.
Il saper fare è una sorta di rivoluzione culturale, che presenta una quantità incalcolabile di vantaggi: permette di recuperare capacità e utilità perdute, di accedere a beni primari limitando acquisti e spostamenti, di inquinare meno e risparmiare molto, ma anche di sperimentare una nuova dimensione entro la quale rivalutare il tempo e la soddisfazione del lavoro ben fatto, da condividere in modo solidale, appunto. Un punto di vista che è in sostanza quello dell’Università del Saper Fare (Unisf), una delle reazioni più interessanti all’attuale crisi. Nata dall’attività sul territorio dei Circoli territoriali del Movimento per la Decrescita Felice (Mdf), l’Unisf è un gruppo operativo che, già dalla primavera del 2009, si propone di recuperare alcune capacità e alcuni saperi, appunto, che si sono abbandonati negli ultimi decenni. Il tutto, costruendo una rete di legami sociali e recuperando un senso di convivialità che sembrava ormai andato perduto.
Nonostante il nome altisonante, questa “università” è semplicemente composta da gruppi di persone che, in tutta Italia, vogliono imparare a fare cose semplici per migliorare la propria quotidianità, magari iniziando a dipendere un po’ di meno da soldi che invece scarseggiano sempre di più. Come? Producendosi il pane o il formaggio in casa, riparandosi i vestiti, l’impianto elettrico, il rubinetto o la bicicletta senza spendere cifre oscene, trovando insomma un modo per emanciparsi da una società dei consumi che ci vuole sempre più svogliati, incapaci e boccaloni. “Ci piace pensare di poter diffondere nella società civile il pensiero della decrescita e avvicinare le persone concretamente, attraverso la pratica di piccole azioni individuali quali l’autoproduzione di beni e lo scambio secondo la logica del dono”, scrivono gli organizzatori dei corsi di autoproduzione sul sito www.unisf.it: “Che, oltre a contribuire a diminuire la nostra impronta ecologica e farci stare meglio, hanno un significato simbolico e politico”.
Eh sì, perché ormai non c’è niente di più rivoluzionario del rendersi indipendenti dal denaro e dai consumi, e non c’è messaggio politico più forte di quello che viene lanciato attraverso i consumi, premiando con l’acquisto o boicottando un determinato prodotto. Pensateci: se si vuole fare sentire la propria voce nel sistema in cui ci troviamo, è più utile sdraiarsi sui binari della Val Susa e frantumare una vetrina di McDonald’s, oppure decidere di non acquistare più qualcosa (anche) perché riusciamo a farcelo da soli/e? “L’obiettivo di questo portale è divenire uno strumento utile per tutti quelli che sono felicemente impegnati a cambiare stile di vita – scrive Unisf – Un luogo di incontro e di confronto sui temi della decrescita, e uno spazio aperto alle idee e ai progetti utili a rafforzare l’alternativa che in tanti stiamo costruendo”.
Insomma, attraverso questi corsi, magari ritenuti da quelli che la sanno lunga solo ingenue e puerili perdite di tempo, si può compiere il primo passo verso quel cambio di paradigma culturale che è l’anima del messaggio della decrescita felice. E che, magari, ci può fare muovere verso l’uscita dal tunnel buio in cui ci siamo (o ci hanno) infilati in questi ultimi anni. Ripeto, non è la soluzione a tutti i complessi problemi che ci troviamo ad affrontare oggi nelle società industriali. Ma di sicuro è il primo passo verso un modo diverso di concepire la vita, per molti diventati una soffocante sequenza di frustrazioni e mancanza di prospettive future.