La bellezza del deserto e delle oasi: i Laghi Gabraon in Libia e i Dauada

Nel Fezzan, nel deserto libico, i laghi Gabraon ospitavano la popolazione dei Dauada, tra i popoli più isolati e poveri al mondo,

A partire dal 2009, fino all’inizio della guerra nei primi mesi del 2011, ho lavorato come ricercatrice per la Missione Archeologica Italiana in Libia, ed è stata una delle esperienze più importanti della mia vita: il Sahara Libico è una delle meraviglie presenti sulla terra, tanto che la zona del Tadrart Acacus è stata dichiarata patrimonio dell’Unesco, senza parlare dei magnifici siti archeologici di Epoca Romana presenti sulla costa, tra Tripolitania e Cirenaica, come Cyrene, Leptis Magna e Sabratha. Lascio da parte archeologia e storia, e mi concentro sulle meraviglie della natura: ad essere protagonisti sono i Laghi Gabraon (o Gabroun, o Gabraoun), che si incontrano inoltrandosi nel deserto di di dune sabbiose dell’ Idehan o Erg di Ubari, in Fezzan, nella parte sudoccidentale del Sahara libico.

Dopo diverse ore di percorso in 4×4 aggredendo le dune con decisione, per evitare di rimanere incagliati sulla loro cima con la parte centrale dell’auto e, scendendo a pendenze che avrei creduto impossibili, da lontano si intravedono dei piccoli punto verdi e azzurri nel mare di sabbia. I laghi. Gabraon è il nome di uno dei più grandi, alcuni sono secchi e si può camminare sulle zolle asciutte rischiando un’insolazione (come ho fatto io) oppure fare il bagno nelle acque salatissime dei più profondi, dove si galleggia anche se non si sa nuotare, proprio come nel Mar Morto (cosa che ho evitato di fare per rispetto del senso del pudore femminile che nei paesi arabi è differente e di entrarci vestita non avevo voglia…). Sulle dune altissime c’era chi sciava, andava in slittino, si rotolava…un vero parco giochi naturale insomma. Oggi i laghi in mezzo al deserto fezzanese sono 21: di questi, 15 sono perenni (uno di acqua dolce garantiva da secoli la sopravvivenza dei Dauada), quattro stagionali, con acqua solo nei mesi invernali, e due ormai prosciugati. Pozze lunghe fino a 600 metri, profonde decine di metri e circondate da palme lussureggianti. Un eden tra le aride dune dell’erg.

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Ma la cosa più affascinante è stata la storia raccontataci dalle nostre guide Tuareg, sulla “popolazione più povera del mondo”, i Dauada.

Da un articolo di Fausta Filbier, “Gheddafi e i mangiatori di vermi” (Diario: Anno V – numero 12 – 22/28 Marzo 2000) ho tratto informazioni particolareggiate, che hanno perfettamente coinciso con i loro racconti.

Strana storia, quella dei Dauada: sono sopravvissuti, per quasi 2 mila anni, alle invasioni e alle scorrerie di romani, arabi, turchi, tuareg, italiani e francesi, per poi soccombere alla “modernità” per volere di Gheddafi. Strano perché, proprio per il loro modo di vivere povero, essenziale, ma libero, lo stesso Colonnello nel 1973 li elevò a modello nazionale: un dignitoso esempio di vita fatta di stenti e di rinunce, da contrapporre alle abitudini agiate e oziose dei conterranei urbanizzati, schiavi del consumismo e dei miti dell’Occidente.

A quel tempo, nulla era cambiato da quando gli arabi battezzarono, con disprezzo, i Dauada «mangiatori di vermi», perché di dùd, vermi, si cibavano. In realtà proprio vermi non sono: si tratta di minuscoli crostacei dal colore rossastro (Arthemia salina), che vivono nei laghi salati di questo angolo di deserto e in tutte le acque salmastre del mondo.

Da censimenti italiani nel 1937, sulle rive di questi laghi, nei villaggi di Trouna, Mandara e Gabr’ Aoun, vivevano 336 Dauada. Piccola etnia dalla pelle scura e di bassa statura, sono forse i discendenti di una popolazione indigena del Fezzan. O forse sono gli eredi di quelle popolazioni preistoriche che a pochi chilometri di distanza, sulle pareti del Tassili e del Messak, dipinsero e scolpirono giraffe, coccodrilli, ippopotami e struzzi. Diecimila anni fa questo angolo di Sahara era una savana ricca di acqua, fiumi, piante e animali: gli abitanti di allora ne immortalarono la vita nei graffiti che oggi si possono ammirare sulle rocce, nelle caverne, negli wadi.

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La loro vita quotidiana era piena di tabù e superstizioni. Soltanto le donne nate nella tribù avevano il diritto di pescare i “vermi” che assicuravano la base dell’alimentazione; era però vietato loro di entrare nell’acqua durante le mestruazioni e i 40 giorni successivi al parto. Erano convinti che la minima infrazione a queste regole avrebbe fatto sparire per lungo tempo quest’unica risorsa alimentare. La pesca si effettuava con un guadino munito di una lunga rete dalle maglie molto sottili, e aveva luogo ogni due giorni. La marcia delle donne, vecchie e giovani, nel limo, era lenta e ossessionante. I crostacei si trovavano mischiati, in fondo alla rete, a un’alga chiamata danga, dalla quale era impossibile separarli. Il tutto formava così una pasta bruna con la quale, dopo essere stata lavata e impastata, venivano formati dei pani. Essiccati al sole per diversi giorni, venivano poi sepolti sotto la sabbia. Dopo qualche mese questo impasto nero dal forte odore di pesce avariato era pronto per essere mangiato, con una salsa piccante o mescolato a datteri schiacciati. Un alimento, secondo gli scienziati che lo hanno analizzato, dall’alto valore proteico. E se le donne si occupavano della pesca, gli uomini della tribù si occupavano dell’altra attività redditizia: la raccolta del natron. Ovvero un miscuglio di carbonato di sodio naturale con altri sali sodici; in parole semplici, il preziosissimo, indispensabile sale.

Il carbonato di sodio si forma per evaporazione, sempre in questi laghi del deserto, sulla superficie dell’acqua e specialmente d’estate si deposita sulle rive formando una crosta biancastra. Troppo poveri per possedere cammelli, garantire trasporti e vendere i loro prodotti, i Dauada erano così totalmente tributari dei carovanieri che una volta l’anno venivano tra queste dune isolate a comprare il sale per un prezzo irrisorio, e lo trasportavano a Tripoli, Algeri, Tunisi. Il natron veniva mescolato al tabacco da presa o da masticare, entrava nella lavorazione dei prodotti da conciare, accelerava la cottura della carne, veniva somministrato a cammelli, cavalli e asini per farli ingrassare. Era infine un elemento essenziale della farmacopea indigena.

Per arrampicarsi meglio sulle ripide dune intorno ai laghi e non affondare nella molle sabbia del Sahara, nel corso dei secoli i Dauada avevano persino trovato un modo per camminare velocemente e con poca fatica. I loro piedi così si sono deformati: corti, molto arcuati, talloni sottili e piante larghe, alluci molto sviluppati rispetto alle altre dita. Un esempio perfetto di adattamento all’ambiente circostante. Un popolo fossile, sono stati definiti da chi li ha studiati. Rappresentanti viventi di una preistoria da non dimenticare. La loro era sicuramente una vita dura, povera, essenziale. Dei diversi, non integrati in alcun modo nel moderno stato concepito da Gheddafi. Ed è per questo, almeno ufficialmente, che tra l’agosto e l’ottobre 1990 il Colonnello decide la deportazione di tutti gli abitanti dei laghi. Circa 200 persone vengono così trasferite, a bordo di grossi camion, nelle moderne, anonime case della Nuova Gabroun, nella valle dell’Adjal, vicino a Germa. «Laggiù viviamo bene», mi racconta Abu Salah, 34 anni, Dauada purosangue, oggi guida-autista di jeep, che porta i turisti ad ammirare questi laghi e le rovine del suo villaggio. All’epoca del «trasloco» aveva poco più di 20 anni e nei suoi ricordi del modo di vivere antico è rimasto ben poco. Abu è al contrario molto fiero della sua moderna casa. Le antiche tradizioni? Ormai non servono più, mi dice. Se vogliamo il sale, lo compriamo nel negozio sotto casa. L’Artemia? Le donne vengono ancora a raccoglierla. Certo, non per una necessità alimentare ma, si dice, perché l’Artemia avrebbe virtù afrodisiache. Le donne arrivano così oggi a Mandara a bordo di potenti jeep. Senza fatica. E non camminano più scalze, in quel vecchio modo, strano ma efficace, di procedere sulle dune scoscese. Anzi, ai piedi indossano comode, pratiche Nike.

E questa ultima frase è stata confermata da Ali, una delle mie Tuareg, che pochi mesi prima aveva assistito stupito alla discesa dall’auto di una di queste donne, che si è poi immersa completamente vestita nelle acque del lago e munita di un largo setaccio ha iniziato a raccogliere L’Artemia .

Le tradizioni sono dure a morire.

Nella foto in alto, foto l’Artemia salina e le alghe che ho raccolto nei laghi. Per vedere tutte le foto che ho scattato durante il viaggio, vi invito a curiosare qui.

Posso solo ringraziare Savino di Lernia, il responsabile della Missione Archeologica Italiana in Libia e tutti i miei colleghi e compagni di viaggio per le avventure meravigliose vissute nel deserto e sperare che ci sia nuovamente la pace in uno dei luoghi che amo di più al mondo.

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