La nuova frontiera dell’Information Technology sembra essere il cosiddetto cloud computing: un modo suggestivo per dire che le attività che svolgiamo ogni giorno via computer potrebbero ben presto essere interamente ospitate, gestite e memorizzate all’esterno delle nostre case e dei nostri uffici, nella cosiddetta “nuvola”. Ciò significa che ai programmi e ai file si accederebbe via internet - un po’ come accade già oggi con gli account su Facebook - usufruendo di un hosting service provider esperto e superattrezzato che avrebbe l’obbligo di provvedere alla gestione informatica dell’intero sistema, garantendo nello stesso tempo privacy e sicurezza dei dati.
La nuova frontiera dell’Information Technology sembra essere il cosiddetto cloud computing: un modo suggestivo per dire che le attività che svolgiamo ogni giorno via computer potrebbero ben presto essere interamente ospitate, gestite e memorizzate all’esterno delle nostre case e dei nostri uffici, nella cosiddetta “nuvola”. Ciò significa che ai programmi e ai file si accederebbe via internet – un po’ come accade già oggi con gli account su Facebook – usufruendo di un hosting service provider esperto e superattrezzato che avrebbe l’obbligo di provvedere alla gestione informatica dell’intero sistema, garantendo nello stesso tempo privacy e sicurezza dei dati.
Di fronte a quella che si prospetta come una rivoluzione nel nostro modo di rapportarci al computer, e che in alcuni casi sta già diventando realtà, la domanda che possiamo porci è: il cloud computing può rappresentare una svolta in senso sostenibile ed ecofriendly per il mondo dell’IT?
La risposta non è semplice e le opinioni degli esperti in merito sono piuttosto varie e contrastanti. Se in genere predomina un certo scetticismo, è forte la speranza che il cloud computing possa portare, sul lungo periodo, al progressivo abbandono da parte delle aziende dei propri data center, determinando un consistente risparmio energetico. È vero che, se tutte le aziende chiudessero i propri server per affidarsi ad un gestore esterno, quest’ultimo dovrebbe dotarsi di sistemi ipersosfisticati e ipertecnologici ad alto consumo di energia: ciò non toglie, però, che si passerebbe dai moltissimi data center di oggi a pochi, e che questi pochi potrebbero – perché no? – essere alimentati da fonti rinnovabili.
Il dato di fatto è che il cloud computing è in piena espansione: l’obiettivo dichiarato di Apple, uno dei maggiori attori in questo ambito, che lo scorso giugno ha lanciato l’iCloud, è di renderlo ben presto disponibile su qualsiasi supporto/gadget elettronico, dallo smartphone, al tablet, alla tv di casa, in modo da coinvolgere il maggior numero di utenti possibile. D’altra parte, le principali resistenze alla sua diffusione sono legate a questioni di privacy: i dati di ciascuno, i suoi documenti più personali, sarebbero conservati in centri che fanno capo ad “estranei” e molti dubitano che si tratti di una soluzione davvero sicura.
Dal punto di vista ambientale, invece, il passaggio dai molti server esistenti attualmente a pochi, grandi data center, con il conseguente risparmio di energia, pare essere l’unico vero “asso ecologico” nella manica del cloud computing: come abbiamo anticipato, un vero avanzamento in materia di sostenibilità potrebbe verificarsi solo se questi pochi server fossero alimentati e gestiti ricorrendo a tecnologie alternative e a fonti energetiche pulite.
Fino ad oggi, però, i colossi della “nuvola” non si sono dimostrati particolarmente ricettivi: nel 2010,Greenpeace aveva diffuso Make it green. Cloud computing and its contribution to climate change, un report che evidenziava l’impatto del cloud computing sui cambiamenti climatici e le strategie che potevano essere messe in campo dal mondo del IT per migliorare la situazione; un anno dopo, nel 2011, il report How dirty is your data? – di cui ci siamo già occupati qualche mese fa – rivela come i data center di Apple, Facebook e di altri giganti del settore siano alimentati facendo ampiamente ricorso a combustibili fossili. In particolare, dalle fonti fossili derivano il 54,5% del fabbisogno di energia dei data center di Apple e il 53,2% di quelli di Facebook. Nei confronti di quest’ultimo, Greenpeace ha già messo in atto diverse campagne di sensibilizzazione, l’ultima delle quali, Unfriend Coal, ha trovato diffusione proprio sulle pagine del più famoso dei social network, registrando un enorme successo tra i suoi stessi utenti.
Più in generale, Greenpeace lamenta la scarsa trasparenza e, in alcuni casi, la reticenza dell’intero settore dell’IT su temi quali l’approvvigionamento energetico e la sostenibilità ambientale e chiede a gran voce una maggiore collaborazione, ricordando che da qui al 2020 il cloud computing determinerà unconsumo di energia elettrica pari a circa 1.900 miliardi di Kwh.
La risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio potrebbe quindi essere, ragionevolmente, la seguente: il cloud computing non è (ancora…) ecofriendly, ma con un po’ di impegno e responsabilità da parte di tutti i soggetti coinvolti (a cominciare dagli utenti, che avrebbero il diritto-dovere di richiedere a gran voce maggiore trasparenza e scelte energetiche sostenibili) potrebbe cercare di diventarlo.