Un ibro da leggere per capire tutti gli effetti psicologici di queste “protesi del nostro esistere”
La copertina è di un bel colore rosso: il richiamo immediato è alla passione che fa esplodere i sensi ma, pure, contemporaneamente, ai segnali di pericolo e allerta. In fondo è di questo che si parla in #Egophonia, (linkaffiliazione), un piccolo libro proposto all’interno della collana Tracce di Hoepli.
L’autrice, Monica Bormetti, è una consulente nella formazione sull’uso consapevole dei media digitali in ambito aziendale e scolastico e, pagina dopo pagina, racconta chiaramente come gli smartphone (questi telefoni che riteniamo così smart, cioè “intelligenti”, “brillanti”) in realtà si stiano sempre più frapponendo tra noi e la vita vera.
Passiamo tantissimo tempo attaccati ai telefonini non per l’uso classico, ovvero telefonare, ma per seguire mail, chat, social: a seconda degli studi si va dalle due a cinque e anche più ore al giorno.
Pure senza considerare gli effetti nocivi sulla nostra salute fisica delle emissioni elettromagnetiche dei cellulari (espresse nel valore SAR), lasciando da parte le considerazioni sulle tecnologie e gli standard che si stanno imponendo sul mercato, facendoci credere che prestazioni e velocità superiori siano assolutamente indispensabili per migliorare la qualità della nostra vita, restano pur sempre gli effetti psicologici di queste “protesi del nostro esistere”.
Che sia chiaro: in questo libro non c’è nessuna posizione “contro” i cellulari ma, semmai, viene sottolineata l’importanza di una riflessione, seria, sull’uso che ne facciamo, affinché sia davvero possibile trarne il massimo vantaggio e, al tempo stesso, “abbassandone i costi in termini cognitivi, relazionali e fisici”.
#Egophonia: gli smartphone fra noi e la vita (linkaffiliazione)
La strada da percorrere, in questa direzione, è tracciata abilmente dalla Bormetti: intanto si tratta di riconoscere che, spesso, andiamo on line per ciò che si può fare ma poi ci restiamo, a lungo, per quello che ci fa sembrare, diventare, essere (in quella nuova dimensione che è la nostra “identità digitale”).
Il passo successivo è quindi osservare consapevolmente se stessi, in questo rapporto vicino, vicinissimo, con il proprio device, e comprendere i meccanismi psicologici che fanno restare attaccati allo schermo.
Con tale nuova chiarezza di visione si potrà poi fare il “punto”, ognuno il suo – sulla base dei propri obiettivi e priorità – e, quindi, passare ad attivare un cambiamento, un percorso di riqualificazione del proprio tempo, delle proprie routine e abitudini.
Insomma, senza stravolgimenti, in modo graduale, si può uscire da un utilizzo automatico/compulsivo e “raggiungere quello stato dei monaci buddisti che usano sì lo smartphone ma non ne vengono trascinati in un vortice da cui faticano ad uscire”.
Nel libro, in ogni capitolo, tutti i passaggi sono accompagnati da esercizi, spunti di riflessioni, letture di approfondimento e consigli. Preziosi.
Conclude l’autrice: “Se Orwell in “1984” ci ha mostrato un mondo in cui le persone erano controllate dall’inflizione del dolore, Huxley nel suo “Nuovo Mondo” ci ha raccontato il controllo attraverso la stimolazione del piacere. Tra questi due estremi sarà il lettore a decidere dove sente pendere di più il mondo di oggi. Ma forse dei passi per allontanarci dall’uno o l’altro scenario, in cui a ogni modo di controllo si tratta, possiamo farli continuando a interrogarci sul nostro rapporto con la tecnologia oggi”. Come individui, oltre che consumatori, consapevoli.
Anna Maria Cebrelli
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