Se noi consumatori sapessimo in anticipo la vita che avrà il nostro smartphone, probabilmente ci dirigeremmo verso scelte più sostenibili per il Pianeta (ed economiche per noi)
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Ci troviamo nella necessità di acquistare un nuovo smartphone. Facciamo un’indagine di mercato, scegliamo fra vari modelli e vari brand, ci impegniamo affinché il nostro sia un investimento che duri nel tempo.
Eppure il destino del nostro dispositivo è già segnato in partenza: dopo tre o al massimo quattro anni il telefono smette di funzionare o inizia a manifestare malfunzionamenti tali da impedirne l’utilizzo, quasi ci fosse una “data di scadenza” oltre la quale i dispositivi smettono di essere utili. Questo fenomeno un nome ce l’ha: si chiama obsolescenza programmata.
Ne abbiamo parlato moltissimo qui su greenMe, e oggi vogliamo raccogliere l’appello che viene da un editoriale di Geoffrey Fowler, apparso sulla testata americana Washington Post e intitolato “Ecco perché i tuoi gadget tecnologici muoiono così presto”. Il giornalista, dopo aver scoperto che non è possibile sostituire le batterie agli auricolari senza fili, ha iniziato un’indagine di mercato che lo ha portato direttamente dentro le aziende di prodotti hi-tech.
Alle più importanti aziende di elettronica al mondo – fra cui Apple, Amazon, Sony, Samsung – Fowler ha posto due semplici domande: quanti cicli di ricarica possano essere effettuati prima che le batterie dei loro dispositivi inizino a mostrare inefficienza, scendendo sotto l’80% di capacità? E’ possibile sostituire la batteria di tali dispositivi?
Il giornalista getta luce su ciò che ognuno di noi ha potuto notare nel suo piccolo: non solo gli smartphone, ma anche i tablet, gli auricolari senza fili e gli smartphone sono destinati ad avere vita breve. Nella maggior parte dei casi, l’elemento che si distrugge per primo è la batteria – che in molti dei dispositivi non può essere neanche sostituita. Non resta altra soluzione per il consumatore che buttare gli apparecchi.
Ci preme ricordare che non si tratta solo di un problema che riguarda le nostre tasche: gli oggetti tecnologici sono tra i rifiuti più inquinanti prodotti dall’essere umano, che difficilmente vengono smaltiti come dovrebbero; inoltre, contengono al proprio interno elementi rari (come oro, palladio, terre rare, rame) che potrebbero essere riciclati e che invece finiscono nelle discariche.
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Galeotta fu Apple
Correva l’anno 2001 e il visionario Steve Jobs presentava al mondo l’iPod, un piccolo accessorio tecnologico che avrebbe rivoluzionato il modo di ascoltare la musica. Design ultra-compatto, linee essenziali e facilmente riconoscibili, l’iPod diventò presto un oggetto di culto nei primi anni del nuovo millennio.
Purtroppo però, presentava un forte limite: una batteria che non poteva essere sostituita in alcun modo e che, dopo un paio di anni, iniziava a dare segni di cedimento. Ciò portava le persone a buttare via il lettore musicale e a sostituirlo con uno nuovo, magari con un modello più recente.
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L’impossibilità di cambiare la batteria esausta è oggi una caratteristica di molti dispositivi, anche di altri brand tecnologici che hanno raccolto l’eredità di Jobs, costringendo di fatto i consumatori a comprare un nuovo dispositivo quando basterebbe semplicemente sostituire la batteria.
“Se ti presenti in un Apple Store con le batterie AirPod scariche, te ne venderanno solo di nuove. (Apple non ha commentato quando ho chiesto perché.)”, spiega Fowler.
Le alternativi sono possibili
Altri progetti sono possibili. Esistono già. Ad esempio, le action cam di GoPro hanno batterie rimovibili. I Galaxy Buds di Samsung contengono batterie relativamente facili da inserire e rimuovere . Un’azienda chiamata Framework produce un ottimo laptop con parti modulari aggiornabili.
Una “data di scadenza” sulle confezioni
Da qui la proposta: visto che, in effetti, gli accessori tecnologici hanno una data di scadenza (almeno orientativa), perché non indicarla sulla confezione?
Conoscendo prima dell’acquisto una stima della durata della vita del dispositivo, molti consumatori potrebbero indirizzarsi verso scelte diverse, magari più responsabili e sostenibili verso il Pianeta.
Potremmo anche prendere spunto dalla Francia, che nel 2021 ha iniziato a richiedere ad alcune categorie di prodotti di includere un punteggio di riparabilità, valutato da 1 a 10.
Ma chissà perché sappiamo già che nessuno ci ascolterà…
Noi utenti desideriamo dispositivi elettronici non solo facili da usare e, belli, ma che durino anche a lungo.
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Fonte: Washington Post
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