Basta ricaricare continuamente, con sprechi di energia. Ruyan Guo e il suo team dell’Università UTSA (University of Texas at Sant’Antonio) hanno ricevuto un finanziamento di 50 mila dollari (circa 46 mila euro) dalla National Science Foundation per commercializzare un chip in grado di far lavorare l’elettronica di bassa potenza (come i cellulari) in modo più efficiente. E non solo
Basta ricaricare continuamente, con sprechi di energia. Ruyan Guo e il suo team dell’Università UTSA (University of Texas at Sant’Antonio) hanno ricevuto un finanziamento di 50 mila dollari (circa 46 mila euro) dalla National Science Foundation per commercializzare un chip in grado di far lavorare l’elettronica di bassa potenza (come i cellulari) in modo più efficiente. E non solo.
Il chip è minuscolo: ha le dimensioni di una testa di spillo, ed è in grado di rendere più efficiente le batterie, sostengono gli inventori. Di quanto? La risposta dipende dall’applicazione. “Questo chip può essere utilizzato teoricamente con qualsiasi cosa funzioni a batteria – ha spiegato infatti Shuza Binzaid, che ha collaborato alla ricerca – “Gestisce” la potenza in modo che il dispositivo possa durare più a lungo”.
L’ENERGIA PER RICARICARE IL CELLULARE
La prova che i nostri telefoni sprechino energia è offerta dal calore che essi generano: questo indica infatti che buona parte dell’energia che immettiamo per ricaricarli “si perda” sotto forma di calore, rendendo inefficiente il processo. È poi esperienza comune la necessità di dover ricaricare gli smartphone praticamente tutti i giorni.
Pochi Watt, è vero, ma pur sempre tutti i giorni. Se poi consideriamo tutti gli smartphone attualmente in circolazione (più di 300 milioni) possiamo avere un’idea degli sprechi. Il calcolo è presto fatto: anche fossero solo 10 Watt a ricarica per 300 giorni (dati sottostimati) avremmo 3000 Watt a ricarica per un unico dispositivo, quindi circa 900 miliardi di Watt nel mondo, ovvero 900 GigaWatt (più di 20 volte il fabbisogno energetico italiano). Numeri che hanno, decisamente, molti margini di miglioramento.
LE ALTRE APPLICAZIONI
Ma c’è di più. Il dispositivo, in quanto potenzialmente multiuso, potrebbe essere impiegato anche nel settore medico, come strumento per migliorare le batterie dei pacemaker, per esempio, che attualmente, durano in media dai 4 ai 6 anni, e che per essere cambiate necessitano di interventi chirurgici invasivi.
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Dati certi su quanto il dispositivo potrebbe essere di aiuto saranno ricavati da questa fase pilota di commercializzazione, che ci auguriamo dia presto buone notizie.
Roberta De Carolis
Foto: UTSA