Insieme a tre anfore di epoca romana rinvenute nei fondali marini nei pressi di San Felice Circeo sono emersi i segreti della produzione e conservazione del vino. Probabilmente gli antichi romani utilizzavano uva autoctona
Come producevano e come conservavano il vino gli antichi Romani? E, soprattutto, quale uva usavano? Da tre meravigliose anfore emerse dai fondali al largo di San Felice Circeo vengono fuori tutti i segreti della vendemmia in questa particolare regione tra il primo e il secondo secolo a.C., parte del tardo periodo greco-italico.
È il risultato di una ricerca condotta da un team dell’Università di Avignone che ha identificato, proprio su tre particolari anfore di epoca romana, residui vegetali, polline e una combinazione di marcatori chimici che hanno dato prove sui tipi di uva utilizzati per produrre il vino e una nuova teoria su come veniva conservato.
Era il 2018 quando una serie di maree invernali consentirono di individuare una grossa mole di reperti archeologici su un fondale vicino al moderno porto di San Felice Circeo, in provincia di Latina e a meno di 100 chilometri a sud-est di Roma,, a circa 500 metri dall’attuale linea costiera e quasi 7 metri di profondità. Proprio da qui provengono i reperti oggetto dello studio che hanno permesso di identificare l’area come un’antica zona di ancoraggio.
Le tre anfore e il vino
Due delle tre anfore emerse appartengono al tipo tardo greco-italico “Dressel 1A”, databile dalla seconda metà del II sec a.C. alla metà del I sec a.C, prodotte soprattutto nell’Italia centro-meridionale, dalla Campania all’Etruria dove sono noti numerosi siti di fornaci lungo la zona costiera. Questo tipo di anfore circolava ampiamente in Gallia, Gran Bretagna, Spagna e centro Europa.
Il terzo reperto appartiene invece alla tipologia di vasi “Lamboglia 2”, provenienti dalla costa adriatica e distribuiti in tutto il Mediterraneo occidentale, destinati al trasporto marittimo di vino o olio d’oliva.
Attraverso la ricerca di marcatori molecolari e l’osservazione di resti archeobotanici, gli studiosi hanno identificato residui vegetali, polline e tessuti vegetali di fiori di Vitis.
Queste osservazioni, assieme alla presenza di acidi (tartarico, malico e piruvico) rendono evidente il contenuto delle anfore: uva fermentata, quindi vino, e non solo, i vini erano sia rossi che bianchi. Inoltre, l’osservazione del polline di Vitis, confrontato con diversi tipi di vitigni fossili e spontanei moderni, ha portato i ricercatori a suggerire l’utilizzo di viti autoctone, selvatiche o coltivate, senza escludere una possibile fase intermedia di addomesticamento di cultivar con ancora alcune caratteristiche della Vitis Sylvestris.
Questo è stato uno degli snodi fondamentali, un indicatore antropologico delle abitudini dell’epoca che apre scenari fino ad ora inaccessibili: l’inclusione della vite romana nel processo di addomesticamento – si legge nello studio. All’interno dell’annosa questione di distinguere l’uva selvatica da quella coltivata, lo studio archeopalinologico della Vitis potrebbe portare nuove prove per definire i tempi e le modalità di coltivazione della vite.
Infine, i ricercatori hanno scoperto che all’interno delle anfore c’era una sorta di impermeabilizzante tramite uno strato resinoso. D’altronde, il ricorso al catrame ottenuto da legno e resina di pino è frequentemente riportato nella letteratura dell’epoca: adesso i reperti confermano che lo si usava per coibentare le anfore e proteggere il vino contenuto all’interno. Gli usi della resina erano molteplici, non solo erano riconosciute le sue proprietà impermeabilizzanti, ma anche quelle di battericida ed era infine utilizzata per aromatizzare i vini.
I ritrovamenti intorno al porto di San Felice Circeo, includono anche altri tipi di ceramiche e manufatti. Gli archeologi ritengono che l’area potesse essere vicina a un canale romano.
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Fonte: Plos One
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