Wabi-sabi: imparare a fluire con la bellezza dell'imperfezione. Un trend utile anche nella nostra vita, per contrastare il logorio e lo stress del perfezionismo dilagante.
Pretendere la perfezione, qualunque sia l’ambito in cui ci si muove, forse è un po’ sciocco. Probabilmente un po’ superbo ma, più che altro, una pretesa inutile perché – come sottolineò il saggio Goethe – la perfezione esiste, sì, ma è “la regola del cielo”. Ed è proprio così; basta guardare la Natura e tutto il Creato: la struttura profonda è intrisa di profonda bellezza, di armonia perfetta; non cambia, neppure se ci si ferma ad un’osservazione più “superficiale”, meramente estetica.
Negli uomini, tra gli uomini, le cose invece vanno da sempre un po’ diversamente: “Le persone perfette non combattono, non mentono, non commettono errori e non esistono”, affermò – giusto “qualche” anno fa – Aristotele. Se anche non si può essere perfetti si può però diventare “perfezionisti”: un’attitudine che cresce sin da piccoli.
Quando l’ambiente (spesso a partire dai genitori) esprime soprattutto elevate richieste di “performance”, si finisce per collegare proprio livello di autostima a standard di prestazione sempre elevati. Ineccepibili. I risultati, per il benessere psicoemozionale, sono per lo più deleteri: si tratta di individui “super-sensibili all’imperfezione, al fallimento e alla debolezza. Credono che saranno accettati e amati dagli altri solo se non sbaglieranno mai. Non conoscono il significato di “abbastanza buono”. Per loro, è sempre tutto o niente. Temono quindi l’insuccesso, l’indecisione, la vergogna della non perfezione”, afferma lo psicologo e scrittore Adrian Furnham.
Perché se ne parla? Perché, ahiloro, i perfezionisti, sono in aumento. Uno studio ha analizzato i comportamenti basati sull’individualismo competitivo e il perfezionismo negli studenti universitari (di America, Canada e Regno Unito) dal 1989 al 2016: i risultati indicano chiaramente che non solo i giovani percepiscono l’ambiente come più richiedente ma sono anche più esigenti sia con se stessi che nei confronti degli altri.
E questo riguarda non solo il lavoro ma anche le ambizioni riferite allo stile di vita e si traduce in obiettivi irrealistici. Una sorta di circolo vizioso e stressante della perfezione, insomma, che alla fine non porta benefici neanche alla produttività.
Per uscirne, bisogna imparare a fluire con la bellezza dell’imperfezione. È la riscossa del Wabi-sabi” (che, nella cultura giapponese, è una celebrazione della transitorietà e persino della decadenza della natura): fare le cose al meglio che si può, divertendosi. Prendere il bello e il buono di quello che c’è e goderselo.
Su questo trend si è sviluppato, tra l’altro, molto design occidentale contemporaneo, legato al recupero, all’originalità che nasce dalla diversità, la valorizzazione del particolare e non dello standard. Nella vita pratica, quotidiana, si traduce nella valorizzazione dell’errore, che consente di capire e cambiare; si esce dal fallimento per entrare nell’esperienza. Gli obiettivi, passo dopo passo, sono più raggiungibili e questo produce effetti positivi sul risultato e sull’autostima. Senza ansie, senza depressioni. Con il gusto e il piacere persino dell’imperfezione.
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Ciò non toglie che ricercare la “perfezione” (assolutamente tra virgolette, intesa cioè come crescita personale, come creazione di Bellezza, Gentilezza e opere che hanno come obiettivo il bene di tutti) sia umano, umanissimo e cosa buona e giusta: a patto che sia vissuta con la consapevolezza della inevitabile imperfezione che è, sempre, con noi. Come un processo, come un cammino: tutto è perfetto così com’è non perché sia necessariamente – nello specifico – totalmente perfetto, non perché sia privo di errori o cosiddetti fallimenti, ma perché si colloca in un divenire, nell’accoglienza del limite umano che si misura e sforza per andare oltre. In tensione verso il Cielo, dentro e fuori di Sè.
Anna Maria Cebrelli