Le famiglie funzionano quando gli individui sono connessi profondamente, ma non vincolati

Le tre dimensioni che consentono alla famiglia di superare ogni difficoltà e crisi.

Ogni famiglia si trova a dover affrontare, nel tempo, sia le sue normali fasi “evolutive” che situazioni critiche impreviste. La capacità di superare tutte le difficoltà e farne tesoro, dipende dalle sue modalità di “funzionamento” cioè da come le persone che ne fanno parte si percepiscono e agiscono – nella famiglia – rispetto a tre dimensioni: la coesione, l’adattabilità e la comunicazione.

Un aspetto importante, naturalmente, è il legame emotivo: il sentirsi vicini o lontani, l’aspetto affettivo (quanto ci si vuole bene) e quello cognitivo, il senso di appartenenza; come ci si pensa e ci si vede, in quella relazione e che include anche il rispetto dei confini, sia personali che di ruolo. Tutti questi aspetti definiscono il livello di “coesione”: quando è armonico e bilanciato permette di sentire la famiglia come un posto sicuro in cui potersi rifugiare, dove trovare sostegno anche nei momenti più difficili e dove si è rispettati nella propria unicità.

Le sfumature possibili sono infinite e – secondo il modello di Olson – si collocano lungo un continuum che va dal disimpegno, dato da un basso livello di coesione (cioè il legame affettivo, la voglia di condividere emozioni ed affetti è ridotta, le persone si fanno un po’ gli affari loro e di fronte alle difficoltà non mettono in campo una strategia comune: ognuno fa un po’ come gli pare; mancano le possibilità di chiedere ed ottenere aiuto) all’invischiamento, dove la coesione – invece – è molto molto alta (si tende a non rispettare i diversi “confini” interni: è il caso, ad esempio, di genitori invadenti che non lasciano spazio di respiro e autonomia ai figli -; il legame emotivo è insomma più un laccio condizionante che uno spazio affettivo di libertà e rispetto).

L’adattabilità fa riferimento invece alla capacità di modificare l’organizzazione familiare in base agli eventi che si verificano nel tempo. Se la flessibilità è eccessiva, la famiglia non riesce a stabilire e riconoscere delle regole interne, delle prassi condivise che la contraddistinguono e sono anche una modalità di funzionamento che aiuta e sostiene nei momenti di crisi; sul lato estremo opposto si trovano le famiglie con regole rigide, intoccabili, immutabili, indiscutibili. Le cose si fanno così, come si sono sempre fatte, e basta: non si prende neanche in considerazione la possibilità di apportare dei cambiamenti neanche quando le situazioni critiche, i nuovi avvenimenti lo rendessero necessario.

La qualità e modalità di comunicazione familiare è condizionata dai precedenti aspetti affettivi e di adattabilità. Le possibilità di esprimersi, raccontarsi nei propri bisogni, sentimenti, pensieri, in modo più o meno autentico, empatico, dipendono ovviamente soprattutto da quanto l’ambiente familiare è ricettivo, capace di ascoltare ed accogliente e quindi permette una comunicazione profonda.

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Cosa abbia scoperto Olson, nella sua ricerca che ha coinvolto circa 1200 nuclei familiari di diversa “consistenza” ed età del ciclo di vita, forse lo si può immaginare: funzionano meglio e più a lungo quelle famiglie in cui le persone si sentono connesse, profondamente, ma non vincolate; i cui membri, insieme, sanno fluire con la vita. Che – come canne di bambù che si flettono e ondeggiano in ogni direzione, spinti dal vento, e poi ritornano nella loro posizione “normale” – davanti alle difficoltà riescono a “tirare fuori” risorse nuove, inaspettate e, per poterlo fare, sono capaci a rimettersi in discussione. Riescono a fare due cose, sostanzialmente: la prima è cambiare, modificare il loro “assetto normale” per fronteggiare quella situazione; la seconda è integrare l’esperienza, in modo costruttivo, nel loro funzionamento. Anche la qualità della comunicazione, dopo, è più forte, più intima.

Possiamo partire da qui, anche per la nostra famiglia: acquisita, di origine, o creata da noi.

Anna Maria Cebrelli

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