L'importanza dell'ascolto attivo nella nostra comunicazione quotidiana.
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La nostra è una società chiacchierona: parliamo, parliamo, condividiamo parole e immagini, telefoniamo, chattiamo, facciamo conference-call, meeting e incontri, sessioni e convegni, talk show e interviste e chi più ne ha più ne metta. Parliamo molto, insomma (ahinoi spesso anche con una padronanza linguistica approssimativa). Ma, a proposito di ascolto e autentica comunicazione, come stiamo?
Se guardiamo all’insieme indistinto della nostra società, nelle sue espressioni macro e micro per lo più “ascolta” quel che gli fa comodo e risponde soprattutto su onde emotive, quando e se ipotizza che quel che succede intorno possa minare il suo consolidato tran-tran. La società però è fatta di persone e allora la domanda può diventare più personale, entrare nella nostra vita: qual è l’ultima volta che mi sono sentito ascoltato, ascoltato davvero? E qual è l’ultima volta che ho ascoltato, ascoltato veramente un’altra persona?
In genere non ci viene insegnato ad ascoltare. Udire sì, sentire certo; magari anche seguire le indicazioni, suggestioni. È un livello di ascolto basico, quello a cui siamo normalmente indotti: un po’ come macchinette autoriferite.
Le 4 posizioni dell’ascolto
Concretamente, i nostri stili di ascolto possono oscillare tra queste posizioni:
la simulazione: fingiamo di ascoltare ma con la testa siamo altrove, qualunque cosa voglia dire. Possiamo anche memorizzare i contenuti che l’altro ci porta ma non riusciamo a cogliere l’intenzione generale del messaggio, le sfumature..
la dipendenza: succede quando vogliamo fare bella figura e allora siamo così preoccupati di quello che l’altro può pensare che, di fatto, la nostra attenzione al messaggio ricevuto non può essere che parziale…
la timidezza: è l’atteggiamento di chi presta attenzione a se stesso, per i propri problemi e stati emotivi e quindi non riesce a stare concentrato sulla conversazione e i suoi contenuti..
la razionalità: l’ascolto è razionale, solo di testa e questo fa sì che si senta quel che si vuole sentire, si esclude tutto il linguaggio non verbale.
L’ascolto profondo, l’ascolto passivo e l’ascolto attivo
Oppure possono essere vero ascolto. Profondo. Autentico. Che non si ferma alle parole ma “sente” quello che c’è dietro; che non si accontenta del pur importante linguaggio analogico del corpo ma prova a “sentire”, di nuovo, cosa – di più sottile – la persona sta esprimendo.
L’ascolto profondo, studiato da Thomas Gordon, dovrebbe essere una capacità sviluppata da terapeuti o professionisti delle relazioni di aiuto, nelle loro diverse accezioni ma è una capacità che tutti possiamo sviluppare, che tutti dovremmo avere: per il nostro benessere e per quello delle persone che, a vario titolo, ci girano intorno.
Alla base dell’ascolto profondo c’è l’ascolto passivo. Cioè ascoltare: un uso non meccanico della funzione uditiva ma che coinvolge anche il senso, di quello che viene detto, l’implicito narrato attraverso le emozioni o i gesti. Empatico. Si tratta di stare con quello che viene detto, dandogli uno spazio di accoglienza e contenimento.
Ovviamente risulta impossibile se ci sono distrazioni, se si ha fretta o si sta pensando ad altro, se si affacciano già in mente delle possibili soluzioni o alternative migliori, se si è particolarmente coinvolti da stati emozionali personali.
L’ascolto passivo è solo tempo per l’altro, senza fretta o interruzioni, senza commenti seppure appropriati: sono utili, invece, piccoli messaggi di comprensione, qualcosa come un cenno della testa di accompagnamento. Che informa che sì, ci sono, ti sto seguendo in quello che dici.
E poi si passa all’ascolto attivo: chi ascolta “riflette” il contenuto del messaggio e lo “restituisce” con parole sue. I vantaggi: si verifica di aver compreso correttamente quanto è stato detto, riportando anche il proprio stato emotivo e facendo la differenza tra le proprie emozioni e pensieri e quelli dell’altra persona.
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Spesso ci parliamo addosso: ognuno parla solo di sé. Non ci ascoltiamo, le parole dell’altro diventano solo uno spunto per affermare il nostro pensiero a prescindere. L’ascolto attivo cambia la prospettiva: ci ricorda che l’incontro, autentico, avviene solo se sappiamo creare in noi, per l’altro, uno spazio vuoto ma accogliente di tempo e silenzio. A quel punto le parole che verranno scambiate, di conseguenza, avranno un altro sapore, un’altra utilità; saranno senza giudizio e pregiudizi, non avranno fretta di arrivare a delle conclusioni, sapranno entrare rispettando anche il punto di vista dell’altro, non saranno conflittuali né egoiche.
“Coloro che sono stati ascoltati “attivamente” maturano sotto il profilo emotivo, si aprono all’esperienza, stanno meno sulla difensiva, diventano più accettanti e meno autoritari“: hanno scritto Carl Rogers e David Russel in “Un rivoluzionario silenzioso”. Certo, non ce l’hanno mai insegnato: ma a nessuna età è troppo tardi per imparare, per cominciare.
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Un esercizio per ascoltare di più
Ad esempio con questo esercizio suggerito da Rogers: la prossima volta che avrete una discussione con qualcuno, fermatevi e concordate questa regola: ognuno può esprimere la propria argomentazione solo dopo aver prima riesposto le idee e le sensazioni dell’interlocutore (e aver ricevuto da lui la conferma della correttezza); in altre parole, prima di presentare il proprio punto di vista è utile aver assimilato lo scenario, idee e sensazioni, portato dal proprio interlocutore. Poi si potrà osservare se e come questo tipo di ascolto – che richiede di “stare con l’altro” – cambia il nostro sentire, il nostro pensare, il nostro modo di rispondere.
Anna Maria Cebrelli