Hikikomori, un disagio profondo che induce isolamento sociale nei giovani tra i 14 e i 25 anni. Sono 100mila in Italia.
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Gli “Hikikomori” non si vedono; se ne stanno in disparte, nascosti. Praticamente sono invisibili. Eppure pochi non sono: circa 100mila si trovano in Italia (secondo stime, non ufficiali, dell’associazione che si occupa di questo problema); per lo più hanno tra i 14 e i 25 anni (ma questo non esclude età maggiori o minori), circa il 70% è di sesso maschile, il 30% femminile.
Cosa significa Hikikimori?
“Hikikomori” è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte”
Chi sono?
“Hikikomori” è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte”. Provengono da famiglie benestanti, spesso sono figli unici o di genitori separati. Sono intelligenti, non hanno problemi a scuola ma, per sensibilità e carattere, non si trovano spesso in sintonia con i compagni di classe. Il fenomeno, nato in Giappone negli Anni Ottanta, si sta diffondendo ovunque. Tristemente.
Questa marea di giovani hikikomori non studia né lavora. Sta in casa, per lo più rintanata nella sua cameretta; parla poco con i parenti e i genitori. Nessun contatto con il mondo esterno se non attraverso Internet. Però bisogna dirlo: non si tratta di “bamboccioni” o fannulloni ma di soggetti con un disagio profondo.
Che problemi hanno?
Secondo Marco Crepaldi, fondatore di Hikikomori Italia, questo è un problema “che affligge tutte le economie sviluppate e riguarda i ragazzini che non riescono a sopportare la pressione della competizione scolastica e lavorativa e decidono di auto-escludersi”. La ragione principale dunque, anche secondo quanto emerge dalle ricerche condotte in Giappone, è la pressione sociale che si esprime sotto sfaccettature diverse: dipende dalla crisi economica e dalla difficoltà di entrare nel mondo del lavoro; viene esasperata e ampliata dalla cultura dell’apparenza e dell’immagine, resa ancora più importante grazie ai social network; si esprime attraverso il vissuto familiare: i figli unici, in genere, sono più stressati perché su di loro si proiettano tutte le aspettative genitoriali. Un altro fattore individuato è il ruolo dei padri, spesso assenti per via del lavoro.
E poi c’è la scuola (tra le medie e le superiori): inadeguata ad accogliere, sostenere la volontà di conoscenza nel rispetto dell’individualità e improntata sulla competitività. Così basta un “fattore precipitante” (un brutto voto, un rimprovero, un episodio di bullismo) e comincia il processo di ritiro: si comincia a stare a casa qualche giorno, ad evitare gli altri, e poi diventa la vita. La propria vita da autorecluso da un mondo che è “troppo”, difficile da affrontare e sostenere. “Si tratta in genere di situazioni che, agli occhi degli altri, non sono gravi ma per un soggetto fragile, vulnerabile, diventa difficilissima”.
I segnali che devono allertare
- si cominciano a saltare i giorni di scuola con le scuse più varie
- non si frequentano più le solite attività, inizia un periodo di isolamento sociale
- spesso il soggetto, in casa, sceglie di stare solo o perlopiù in camera da letto
- il ritmo sonno-veglia è invertito (il giovane dorme di giorno e rimane sveglio di notte)
- aumento della fruizione di tv e computer e attività solitarie connesse
Cosa fare
Quando due o più di questi comportamenti si presentano, è fondamentale intervenire subito: innanzitutto si tratta di comprendere cosa sta succedendo, le motivazioni profonde del disagio e poi, se è il caso, ricorrere ad un intervento esperto, psicologico e di sostegno. In caso contrario, il rischio è che si instauri una fase di isolamento che può durare da mesi a, persino, anni e la cui risoluzione potrebbe richiedere un intervento molto più complesso e lungo nel tempo.
Da un punto di vista diagnostico spesso questa situazione viene inquadrata come una forma depressiva o di dipendenza da internet. Ma una cosa è certa: gli hikikohimori non sono dipendenti da internet. Internet, piuttosto, è l’unica forma di comunicazione che si concedono con il resto del mondo. Ecco perché, spiega Crepaldi, “è bene non toglier loro i dispositivi elettronici e “connessione” alla Rete”. E intervenire, subito, in modo adeguato.
Anna Maria Cebrelli