La depressione climatica è il nuovo male del secolo. La distruzione del Pianeta ci fa male dentro

La depressione climatica è il nuovo male del secolo, l’umanità non avrà scampo se non sarà in grado di ripensare a modelli e sistemi che l’hanno condotta sul baratro

Con ogni probabilità, quando il giornalista David Wallace-Wells decise di ampliare e approfondire un articolo scritto per il New York Magazine nel luglio 2017, trasformandolo in un libro, non immaginava di innescare un furente dibattito sui cambiamenti climatici, ma lo auspicava. E ci è riuscito.“The uninhabitable Earth”, pubblicato all’inizio del 2019 e diventato in breve tempo un bestseller, tratteggia gli scenari da apocalisse a cui l’umanità è destinata ad andare incontro a causa della crisi climatica con una crudezza che ha fatto scalpore e che ha mosso, in particolar modo nei Paesi anglosassoni, una lunga onda di accanimento mediatico e indignazione.

Il libro di Wallace-Wells è, in effetti, pervaso da un allarmismo di fondo che non sfocia mai in una reale proposta, ma ha il pregio di aprire uno squarcio nel velo di inerte conformismo sotto cui l’opinione pubblica ha accantonato il climate change.

Come già accaduto per Greta Thunberg e il movimento Fridays for Future, il rischio è che al grande clamore segua un altrettanto grande silenzio, che la patina mediatica si appiccichi al significato più puro della lotta ambientale rivestendolo di forme e utilità contingenti che nulla hanno a che vedere con la salvaguardia del pianeta. E se l’obiettivo di Wallace-Wells era quello di scandalizzare in senso pasoliniano, l’autore ha certamente colto nel segno.

z, e gli accorati appelli rimarranno parole fini a sé stesse, buone ad alimentare uno storytelling o nel peggiore dei casi dei complottismi, ma poco altro. Si dovrebbe invece parlare, e molto, dei processi di acidificazione degli oceani, perdita della biodiversità, desertificazione dilagante, scioglimento dei ghiacciai, delle ondate estreme di calore e di tutti i rischi esistenziali che caratterizzano l’antropocene.

Come spiega Alex Robinson su Medium, è fondamentale passare da una fase di “ottimismo disinformato”, cioè di sostanziale ignoranza del problema, a una di “pessimismo informato”, in cui la rapida diffusione di notizie contribuisce a creare un effetto bandwagon di agitazione, polarizzazione del dibattito, catastrofismo.

Sono transizioni necessarie per giungere allo stadio di “ottimismo informato”, in cui la gravità della situazione è stata metabolizzata e la piena comprensione delle sfide che si profilano spinge all’azione concreta, ordinata e risolutiva. Stando al diagramma illustrato da Robinson, in questo frangente l’umanità può considerarsi a un punto intermedio tra la prima e la seconda fase, non abbastanza consapevole da farsi prendere dal panico e non così pessimista da abbandonarsi alla disperazione. Ma il tempo stringe, e il report IPCC del 2018 è stato chiaro: abbiamo poco più di dieci anni per intervenire prima che sia troppo tardi.

È per questo motivo che messaggi come quello di Thunberg e libri come quello di Wallace-Wells sono lo schiaffo necessario a risvegliare le coscienze più intorpidite, la spinta ad avanzare il punto sul diagramma e ad agire, anche quando le conseguenze possono apparire sgradevoli o controproducenti. Al riguardo, a mettere in allerta per l’immediato futuro è un fenomeno ancora poco noto ma in rapida diffusione: il climate despair.

Con tale espressione, che in italiano significa “disperazione causata dal clima” ma che sarebbe più opportuno tradurre come “depressione climatica”, si indica un atteggiamento di rassegnazione e abbandono causato dalla percezione che l’emergenza ambientale in atto condurrà ben presto l’umanità verso l’estinzione. La depressione climatica non rappresenta una patologia vera e propria, non essendo ancora suffragata da studi epidemiologici né dal consensus della comunità scientifica, e non va ovviamente confusa con la meteoropatia, che invece indica i disturbi fisici e psichici che affliggono un individuo in coincidenza di repentine variazioni delle condizioni meteo o in prossimità dell’avvicendarsi delle stagioni.

Nonostante se ne discuta da qualche anno, il climate despair è diventato virale appena un paio di settimane fa, quando su Vice è apparso un articolo in cui si racconta la storia di Meg Ruttan Walker, ex insegnante di 37 anni dell’Ontario ora attivista. A seguito della tremenda estate 2015, la più calda mai registrata finora, la donna ha sperimentato episodi di panico e attacchi d’ansia che l’hanno spinta fin sull’orlo dell’autolesionismo, costringendola a rivolgersi a una struttura di igiene mentale. Come lei, sempre più persone hanno difficoltà ad affrontare il quotidiano e a realizzare progetti di vita, soggiogati da un’idea di futilità e impotenza che li conduce spesso a decisioni drastiche.

C’è chi rinuncia a fare figli per non condannarli a un’esistenza drammatica, chi abbandona il lavoro, chi è a tal punto devastato dal senso di colpa da aver bisogno di supporto psicologico e percorsi terapeutici. Com’è facile intuire, il climate despair tende a colpire soggetti già particolarmente vulnerabili perché affetti da disturbi o patologie come ansia, DOC, depressione, comportamento suicidario, ma potrebbe ben presto propagarsi come un’epidemia a causa delle condizioni sempre più critiche in cui versa il pianeta. La recente ondata di calore che ha interessato l’Europa, frantumando numerosi record di temperature in Francia, Germania, Scozia e Inghilterra (42° rilevati a Parigi, 39.5° a Colonia, 38° a Londra, 31° a Edimburgo) ne è un prodromo più che plausibile.

La stessa Greta Thunberg ha ammesso di aver sofferto di climate despair. Come racconta nell’introduzione de “La nostra casa è in fiamme”, edito per la collana Strade Blu di Mondadori,

“Ricordo di aver pensato che era molto strano che gli esseri umani, che sono una specie animale tra le altre, fossero in grado di cambiare il clima terrestre. Perché se era così, se stava succedendo davvero, non si sarebbe dovuto parlare d’altro. E invece non ne parlava nessuno. […] Per me non aveva senso. Era troppo assurdo. E così, a undici anni, mi sono ammalata. Sono caduta in depressione. Ho smesso di parlare. E ho smesso di mangiare. Nel giro di due mesi ho perso una decina di chili. In seguito mi hanno diagnosticato la sindrome di Asperger, il disturbo ossessivo-compulsivo e il mutismo selettivo”.

Ciò che è accaduto dopo è già storia: Greta ha intrapreso uno sciopero per il clima che ha mobilitato milioni di persone in tutto il mondo, ispirato movimenti globali e influenzato il dibattito politico come mai prima d’ora. Se oggi, come dimostra uno studio dell’Università di Yale, quattro elettori americani su cinque dichiarano di supportare il Green New Deal lo si deve anche al modo in cui ha mutato il nostro approccio alla questione ambientale.

Ma non è abbastanza. E la stessa comunità scientifica che Greta Thunberg implora di ascoltare ne è ben consapevole. Nonostante i proclami, gli intenti, le dichiarazioni di emergenza climatica in numerosi Paesi e città, nessun passo concreto è stato compiuto. La dimostrazione più eloquente è fornita dalla Curva di Keeling, che monitora la quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera fin dal 1958, quando lo scienziato omonimo ne avviò le registrazioni dall’osservatorio di Mauna Loa nelle Hawaii. La concentrazione di CO2 era all’epoca di 313 parti per milione. Nell’aggiornamento datato 26 luglio è di 410,6 ppm, con un incremento del 31,18% negli ultimi 61 anni che non accenna ad arrestarsi. Numeri che farebbero rabbrividire, se non facessero invece ardere il pianeta.

Convivere con una simile spada di Damocle sul capo non è semplice, soprattutto per quegli addetti ai lavori ed esperti del settore che processano quotidianamente una mole di informazioni che non lascia adito a dubbi. Eppure ogni soluzione al climate change e al climate despair non potrà che provenire dalla scienza. Ne è convinto Dave Reay, ricercatore e docente all’Università di Edimburgo, che in una pubblicazione per Nature si dice terrorizzato “da un futuro di carestie e devastanti tempeste che si scatena dietro le palpebre durante le notti insonni”, ma convinto che la risposta migliore da dare all’angoscia sia l’insegnamento, l’educazione di una nuova schiera di professionisti, politici e ricercatori consapevoli e attivi.

Agire, è questa la sola cura efficace per la depressione climatica: lasciare che lo sconforto evolva nell’ottimismo informato che ha permesso a Greta Thunberg, a Meg Ruttan Walker e a Dave Reay di andare avanti con le proprie vite utilizzando il panico come innesco di una reazione. D’altronde, ci troviamo di fronte a una sfida senza precedenti storici che necessita di una vasta e trasversale opposizione di studenti, insegnanti, politici, attivisti, giornalisti, scienziati.

L’umanità non avrà scampo dall’apocalisse climatica se non sarà in grado di ripensare profondamente modelli, sistemi e paradigmi che l’hanno condotta sul baratro, fra cui l’iniqua distribuzione della ricchezza, il capitalismo razziale, il colonialismo e la governance vigente. Stando alle conclusioni del paper diffuso lo scorso maggio dal Social Science Research Council, la crisi climatica potrebbe avere il pregio di innescare meccanismi di solidarietà e perequazione attivati da politiche ambiziose e radicali di contrasto alle disuguaglianze. Potrà sembrare più difficile di trovare una cura per il cancro, ma non esiste altra terapia se non quella di mobilitarsi. Tutti, nessuno escluso, perché nessuno è troppo piccolo per fare la differenza.

Emanuele Tanzilli

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