Fare le condoglianze con tatto e sensibilità è importante, soprattutto oggi che non siamo più abituati a ritualizzare la morte e a parlarne.
La perdita di una persona cara mette a dura prova chiunque e trattandosi di circostanze delicate, è importante trovare le parole giuste per confortare chi l’ha subita. Purtroppo la nostra società non è più abituata ad accompagnare la morte con appositi rituali, protratti anche nei mesi successivi al decesso, forse perché troppo proiettata sull’idea di una giovinezza eterna. Eppure quei rituali, diffusi ancora oggi in altre culture, svolgono un ruolo importante nell’accompagnamento del defunto e di chi lo ha amato.
Per esempio ancora oggi in Romania, dove la maggioranza della popolazione è ortodossa, i familiari del defunto organizzano banchetti funebri in onore del morto seguendo uno specifico calendario, portando in tavola di volta in volta cibi appositamente preparati per l’occasione. Un posto in tavola è vuoto, destinato all’anima del defunto.
Nell’antico Egitto, nell’antica Roma, e in tempi più recenti anche in alcune aree dell’Italia meridionale, per piangere ai funerali, venivano pagate delle donne chiamate prefiche. Altrove ci si vestiva di nero o non si toccavano le cose del defunto per diversi giorni. Presso alcune popolazioni rom vengono bruciati tutti i suoi abiti e oggetti. Insomma, ogni cultura aveva, o ha ancora oggi, dei rituali per esorcizzare, ed accompagnare, la morte.
Nella società occidentale la morte, come ribadito da numerosi studiosi, è diventata invece un vero e proprio tabù. La si evita, si finge che non esista, non se ne parla, alimentando con questo atteggiamento di rifiuto la paura. Quest’ultima, a sua volta, crea tensione e aumenta il dolore dovuto alla perdita. In questo contesto i rituali che la riguardano sono andati sparendo, se non fosse per i singoli funerali.
Il rifiuto della morte, in nome di un eterno benessere che è in realtà illusorio, complica le cose anche quando si tratta di trovare le parole giuste per sostenere e confortare le persone che l’hanno subita. Perché si rischia spesso di pronunciare frasi inutili, se non addirittura dannose. Espressioni comuni, stabilite socialmente, come “so come ti senti”, “vedrai che con il tempo starai meglio”, “in fondo è meglio così, aveva la sua età” e via dicendo. Formule che non aiutano davvero chi soffre, ma che gli impediscono di esprimere liberamente le proprie emozioni di dolore, come se fosse sbagliato viverle, e fosse un obbligo riprendersi il più in fretta possibile.
Ma il dolore, come suggerisce la psicologia, va accettato e vissuto fino in fondo. È normale che la persona afflitta pianga, si arrabbi, provi gelosia e invidia per chi sta bene. Inutile fingere il contrario o consigliare a chi soffre di calmarsi, di non piangere, altra frase fatta molto diffusa, o di guardare avanti. Il lato positivo in circostanze simili è fuori luogo.
Può essere invece gradevole condividere un ricordo riguardante il defunto con le persone che ne soffrono la perdita, quasi fosse un modo per celebrarlo. Da evitare i paragoni, del tipo “so cosa provi”, perché si tratta evidentemente di una falsità. Il dolore è un’emozione troppo personale, che ognuno vive a modo proprio. E se non sapete cosa dire, meglio tacere, sostituendo le parole con un gesto affettuoso come un abbraccio o una carezza gentile.
Recuperare la vecchia abitudine delle lettere di condoglianze può essere un’ottima idea, di certo più efficace rispetto a un messaggino sui social, anche perché rimane nel tempo. E infine cerchiamo di smettere di trovare sinonimi alla parola morte, pur di evitarla. Perché affermare che una persona è andata in un luogo migliore o dire che si trova in pace, storpia il suo vero significato, che è finire, svanire, estinguersi, e soprattutto connota la morte in una maniera non universalmente valida. Non è detto infatti che per tutti la morte porti in luoghi migliori o in pace, ciò dipende dal background culturale.
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