Le catene possono essere rassicuranti ma non ci consentono di muoverci e di esprimere veramente noi stessi: siamo sotto il dominio di qualcun altro.
Un filo unisce due punti. Una catena lega, lo spazio di movimento che lascia è definito dalla sua lunghezza. Come ad un cane non fa psicologicamente bene stare alla catena (non fa bene neanche al suo fisico, in realtà), così per un animale umano le catene, per lo più, sono deleterie.
Ci sono situazioni, abitudini che ci fanno crescere; ci sono persone con cui si costruisce un’unione libera, una vicinanza dettata solo dal cuore. Altre che ci vincolano, ci condizionano, ci tengono legati a sé al di là della nostra consapevolezza o – detto in modo più chiaro – ci rendono, in modo più o meno forte e chiaro, schiavi: ci fanno agire seguendo gli impulsi dati in modo palese o subliminare da altri. Un po’ come succede, ad esempio, grazie a tecniche di neuromarketing sempre più raffinate che utilizzano tutte le conoscenze sul condizionamento e sul funzionamento del nostro cervello per indurci a fare acquisti, per farci considerare indispensabile (e assolutamente desiderabile) qualcosa che non lo è, per farci diventare consumatori fedeli.
Sì, fedeli. Le catene assicurano una certa fedeltà, un’appartenenza che è però, anche, “controllo del territorio” (simbolicamente, anche ogni catena o catenella indossata, ricevuta in dono o acquistata, fosse solo come reminescenza vaga e lontana parla di questo tipo di “appartenenza”); averne consapevolezza fa la differenza, libera dalle condizioni implicite e nascoste che diventano dei condizionamenti inconsapevoli.
Le nostre catene possono legarci in modo non costruttivo al lavoro, possono renderci dipendenti da una nostra idea di amore, ci rendono schiavi del sesso o della moda, per fare degli esempi. Sicuramente molti corrono il rischio di diventare in qualche modo schiavi della tecnologia. Ma siamo anche schiavi di forme di pensiero consolidate dalla cultura imperante, trasmesse dai mass media; siamo vincolati dai nostri schemi cognitivi, dal modo di vedere il mondo che abbiamo fatto – anche – di impressioni, inferenze, esperienze, profezie che si autoavverano.
Si tratta, sempre, di qualcosa che non ci aiuta a crescere, che ci tiene bloccati come in una sorta di Matrix magari di abbondanza e benessere: però apparente. Siamo come Gulliver (il personaggio narrato da Swift), che – dopo un naufragio in mare – si risveglia su una riva sconosciuta. Solo quando cerca di alzarsi si rende conto di essere legato: mentre dormiva, i piccolissimi abitanti di quel paese, i Lillipuziani, lo avevano bloccato al suolo con centinaia di piccole funi.
Ecco, le nostre catene per lo più sono così: si sono posizionate comodamente grazie al nostro “sonno” (approfittando di tecniche di persuasione, senza la nostra attenzione e consapevolezza, grazie all’abitudine, alla comodità, inseguendo un’idea di piacere o schemi acquisiti nella nostra esperienza o ereditati dalla nostra famiglia, dal nostro ambiente e mai messi in discussione), sembrano piccole e insignificanti ma di fatto, quando proviamo a camminare più consapevolmente nella vita ecco che ci bloccano, ci tirano indietro.
“Il cane, il cavallo e la capra non sentono la corda che li tiene legati al palo, a meno che non vogliano muoversi per andarsene a spasso liberamente – spiega il maestro Omraam Mikhaël Aïvanhov -. Per l’uomo, quei lacci sono tutte le tendenze, abitudini, comportamenti, che lo mantengono ai livelli inferiori della coscienza”.
Per chi vuole liberarsi da lacci e catene, il primo passo è rendersi conto di quali sono. Il secondo è scegliere – sì, serve un atto di volontà e visione – di intraprendere una nuova strada, per rispondere ai propri bisogni (materiali, relazionali, sociali) in modo più autentico e libero da “dipendenze”. Il terzo è mettersi in modo, andare. Una bicicletta (metaforicamente parlando, qualunque mezzo o percorso che consenta di muoversi, di cominciare a prendere coscienza e agire in modo nuovo) sarà perfetta. E se pensate, ops, ma la bicicletta ha una catena… sì, è vero. Ma un oggetto è solo un oggetto: l’uso che se ne fa, e la consapevolezza dell’agire, fanno la differenza. In questo caso, la catena della bici è il meccanismo che mette insieme le ruote (la modalità maschile e quella femminile), che tiene insieme – nel presente – il passato e il futuro e consente il movimento. Guidato verso una più autentica libertà e piena espressione di sè (non esattamente quella raccontata nel video qui sotto, ma ci siamo capiti, vero?).
Anna Maria Cebrelli