Viviamo in una società che urla oramai su tutti i fronti. Secondo l'Agenzia Europea per l'ambiente in Italia i livelli di rumore superano i 65 decibel in quasi tutte le città; il fenomeno è particolarmente grave nelle aree urbane dove la popolazione risulta esposta anche a livelli superiori ai 75 decibel, fino a 85 sulle strade.
Secondo l’Agenzia, 65 decibel sono il livello massimo diurno ammissibile in ambiente esterno (per garantire condizioni accettabili di comfort negli ambienti interni) e il superamento prolungato favorisce l’insorgere di patologie a carico dell’apparato uditivo; in effetti, solo in Italia, dal 2012 al 2015 la percentuale dei ragazzi con problemi di udito è passata dal 3 al 4,2%. Il 25% in più. Ci sono troppi decibel in cuffia, negli auricolari, nelle discoteche, in auto (l’Organizzazione mondiale della sanità, da parte sua, invita a seguire “la regola del 60”: musica mai superiore a 60 decibel e per non più di 60 minuti al giorno) ma anche semplicemente guardando la Tv. Così, anche, spesso le persone parlano – senza rendersene neanche troppo conto, nella normale quotidianità – con un tono di voce spontaneamente più alto: spesso per superare i rumori intorno, talvolta per “farsi sentire”.
Urla la Rete: non solo nella comunicazione insana dei troll che volutamente intorpidiscono le acque, agganciano agli ami del litigio e della provocazione ma anche quando – per ignoranza della netiquette o menefreghismo – qualcuno SCRIVE TUTTO IN MAIUSCOLO.
Non che urlare, di per sé, sia qualcosa di sbagliato: un urlo può essere liberatorio, può preparare ad un’azione, può esprimere un dolore acuto che non si riesce a contenere. Ma quando diventa prassi quotidiana, spesso al di fuori del nostro controllo, esprime un problema: alzando la voce cerchiamo di affermare in modo perentorio la nostra presenza (o la nostra opinione); entriamo in una modalità che non consente l’ascolto (ricevuto e donato) e una reale comprensione reciproca perché diventa rumore: che ottunde, nasconde, permette solo di “sentire”. Non facilita l’entrare in relazione con gli altri e, in realtà, neanche con se stessi.
Secondo Guido Conti, responsabile dell’unità audiologica del Policlinico A. Gemelli, “alzare al massimo il volume del suono potrebbe essere una scelta per non sentire i rumori del mondo. Più assordante è il suono e più ci si sente protetti dalle parole e dai rumori di una società bisbetica, dal fragore delle armi, dal pianto di chi fugge dalla violenza e dalla morte”. Dalla complessità che ci circonda.
Possiamo però scegliere di fare diversamente. Abbassare i toni. Ritirarci dalla “lotta urlante” della comunicazione social e tradizionale. Abbassare i volumi, in casa, di radio e tv (accettando il fatto che, all’inizio, si farà difficoltà a sentire bene come prima: l’orecchio va rieducato) e tenere i due apparecchi accesi solo se li si guarda/ascolta. Ascoltare il suono della propria voce, modularlo consapevolmente.
Inoltre, come conferma anche uno studio scientifico, un tono di voce basso, tutt’altro che urlato, risulta piacevole e rende la persona persino più attraente, favorisce la conversazione.
Si tratta di fare spazio al silenzio: è quello che consente l’ascolto e la formulazione di parole giuste. Le pause. Il giusto ritmo. Il volume adeguato alla situazione. Nel rispetto che è accoglienza e dialogo al tempo stesso.
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Possiamo ripartire da qui. Non significa rinunciare ad esprimersi ma – anzi – prendersi il tempo e lo spazio per farlo in modo diverso: più forte e incisivo, perché consapevole.