Scoperto un allevamento dove i maiali venivano costretti a mangare i rifiuti
2.300 i prosciutti Dop sequestrati ieri dai carabinieri dei Nas. Pregiati alimenti, 1.900 prosciutti di Parma e Modena e 400 San Daniele, portati via da circa 40 di stabilimenti di stagionatura emiliani e friulani. Perché? I prosciutti provenivano da maiali nutriti con rifiuti speciali, ossia scarti dell’industria alimentare o provenienti da attività agricole e agro-industriali, destinati ad essere smaltiti negli impianti di biogas.
La sconcertante scoperta è il risultato dell’operazione Trash food, avviata la scorsa primavera, quando i Nas si accorsero durante un’ispezione igienico-sanitaria della grande quantità di rifiuti speciali, animali e vegetali, presenti all’interno di un allevamento di suini. Maiali costretti a nutrirsi di scarti di prosciutti, spinti ad atti di cannibalismo animale da un allevatore che adesso dovrà rispondere di frode in commercio e vendita di prodotti non genuini, ma anche di traffico illecito di rifiuti in concorso con il titolare di due aziende alimentari, una di Mantova e una di Parma. E c’è il timore che i traffici illeciti di rifiuti possano coinvolgere sempre più spesso la filiera agroalimentare.
Una forma coercitiva di cannibalismo che poco si sposa con i criteri che dovrebbero garantire la certificazione Dop. Si tratta di norme che teoricamente dovrebbero garantire maggiori tutele per il consumatore, almeno riguardo ad alcune caratteristiche del prodotto tra cui l’origine, la provenienza delle materie prime, la localizzazione e la tradizionalità del processo produttivo. E fa scalpore che il sequestro abbia riguardato un allevamento certificato, che dovrebbe garantire i più alti standard per i consumatori. Come ha evidenziato Coldiretti, infatti, quasi un italiano su tre acquista regolarmente prosciutti a denominazione di origine (Dop) che vengono ottenuti secondo precisi disciplinari di produzione che garantiscono la sicurezza e la qualità del prodotto.
Casi come questo, secondo l’associazione, arrecano dei danni inestimabili alla credibilità del patrimonio del Made in Italy sia in Italia che all’estero. “In Italia – prosegue la Coldiretti – si sono prodotte, nel 2011, 24,5 milioni di cosce di maiale, mentre ne sono state importate 67 milioni destinate, con la trasformazione e la stagionatura, a diventare prosciutti ‘Made in Italy’ (tra crudi e cotti) perché non è obbligatorio indicare la provenienza della carne di maiale in etichetta, a differenza per quello che avviene per quella bovina dopo l’emergenza Bse. I prosciutti italiani a denominazione di origine protetta che garantiscono l’origine sono – conclude la Coldiretti – Parma, San Daniele, Toscano, Modena, Carpegna e Berico Euganeo“. Salvo casi criminali, come quello scoperto dall’operazione Trash food.
E si torna a parlare di etichettatura. Per difendere il nostro patrimonio alimentare dalle contraffazioni e dalle frodi, come anche Legambiente ha sottolineato, sarebbe necessaria un’etichettatura “completa e trasparente dei prodotti e garantire la tracciabilità delle produzioni“. Di recente gli ambientalisti avevano sottolineato, nel rapporto Eomafia 2012, che i reati di questo tipo, nel settore agroalimentare, sono triplicati.
“Servono poi interventi e pene più severe – aggiunge Vittorio Cogliati Dezza, Presidente di Legambiente – per impedire che il traffico dei rifiuti illeciti alimenti la filiera agroalimentare, insieme ad un maggiore controllo per garantire la qualità dei prodotti, il benessere degli animali e dei consumatori. Solo in questo modo si possono difendere e tutelare i veri prodotti Mady in Italy e i produttori che ogni giorno lavorano rispettando le regole per la produzione dei prodotti Dop e seguendo le buone pratiche agricole“.
E ancora una volta balzano agli occhi le condizioni in cui tali animali sono costretti a vivere. La notizia porta alla ribalta la triste realtà in cui versano i maiali, come quest’anno ha denunciato l’ultima inchiesta condotta da Animal Equity.
Casi che purtroppo, non rappresentan un’eccezione, visto che gran parte degli allevamenti intensivi di maiali, a prescindere dalle certificazioni usavano quasi tutti le stesse pratiche.
Sul caso italiano scoperto, due sono le domande che è opportuno porsi. Se gli alimenti forniti ai maiali erano sottoprodotti, non erano classificabili come “rifiuti speciali“. Qualora invece fossero stati speciali però non sarebbero stati idonei all’alimentazione di un biodigestore anaerobico per la produzione di biogas.
Va inoltre considerato che oltre alla violazione imputata a carico dell’allevatore, si dovrebbe fare luce sul fatto che il proprietario dell’impianto a biogas potesse venire pagato a tonnellate di scarti alimentari per la loro successiva valorizzazione energetica.
Ma a questo punto il confine con i reati di ecomafia sarebbe davvero ridotto.
Francesca Mancuso