Un nuovo studio fa luce sull'impatto dell'esposizione alimentare ai pesticidi sull'insorgenza del cancro al seno in post-menopausa.
Che i pesticidi provochino tumori sembra ormai cosa accertata. Non solo il glifosato in tutte le sue forme è associato all’insorgenza di cancro, o determinati fitofarmaci ad un aumento del rischio di tumori infantili del sistema nervoso centrale, ora sembra chiaro che anche l’esposizione attraverso il cibo a determinati pesticidi provocherebbe cancro al seno in post-menopausa.
È quanto emerge da uno studio francese condotto da un team di ricercatori di CNAM, INSERM e INRAE e pubblicato sull’International Journal of Epidemiology, che esaminano l’associazione tra esposizione alimentare a pesticidi e rischio di sviluppare un carcinoma mammario nelle donne in post-menopausa appartenenti alla coorte del progetto NutriNet-Santé.
Lo studio è stato condotto su 13.149 donne in post-menopausa, compresi 169 casi di cancro. I ricercatori hanno misurato l’esposizione a 25 sostanze attive nella composizione dei pesticidi autorizzati in Europa, a partire da quelli utilizzati nell’agricoltura biologica.
Si sospetta infatti, si legge nella ricerca, che alcuni pesticidi utilizzati in Europa abbiano effetti nocivi sulla salute umana: causano disturbi ormonali e hanno anche proprietà cancerogene. Il legame tra l’esposizione a pesticidi attraverso il cibo e il cancro al seno nella popolazione generale è ancora poco studiato. I ricercatori avevano già dimostrato che i consumatori di alimenti provenienti da agricoltura biologica nella coorte NutriNet-Santé avevano un rischio inferiore di cancro in post-menopausa. Questa stessa squadra ha continuato il suo lavoro, questa volta concentrandosi sull’esposizione a diversi cocktail di pesticidi in questa categoria di popolazione.
Lo studio
Il nuovo studio quadriennale è iniziato nel 2014. I partecipanti hanno completato un questionario per valutare il consumo di alimenti biologici e convenzionali. Nell’analisi sono state incluse un totale di 13.149 donne in post-menopausa e sono stati segnalati 169 casi di cancro.
Un metodo noto come “Fattorizzazione a matrice non negativa” (NMF) ha permesso di stabilire quattro profili di esposizione ai pesticidi, che riflettono diverse miscele di pesticidi cui siamo esposti attraverso il cibo. Quindi, sono stati utilizzati modelli statistici per analizzare questi profili ed esplorare il potenziale legame con il rischio di sviluppare il cancro al seno.
Il profilo NMF n° 1 è caratterizzato da un’elevata esposizione a 4 tipi di pesticidi:
- clorpirifos
- imazalil
- malathion
- tiabendazolo
In questo profilo, i ricercatori notano un aumento del rischio di cancro al seno in post-menopausa nelle donne in sovrappeso (BMI tra 25 e 30) o obese (BMI> 30). Al contrario, il profilo NMF n° 3 è caratterizzato da una bassa esposizione alla maggior parte dei pesticidi sintetici e da una riduzione del 43% del rischio di cancro al seno in post-menopausa. Gli altri due profili identificati da NMF non erano associati al rischio di cancro al seno.
A cosa servono questi pesticidi sintetici?
Il clorpirifos viene utilizzato, ad esempio, su colture di agrumi, frumento, drupacee o spinaci. L’imazalil è anche utilizzato per la coltivazione di agrumi, patate e semi. Il malathion, utilizzato per combattere gli insetti succhiatori (afidi, cocciniglie) è vietato in Francia dal 2008 ma autorizzato in alcuni paesi europei. Il tiabendazolo viene utilizzato, tra l’altro, su mais o patate.
I meccanismi che si trovano all’origine di queste associazioni potrebbero essere legati alle proprietà cancerogene di alcuni pesticidi organofosfati che causano danni al DNA, deregolamentazione dell’apoptosi cellulare, modificazioni epigenetiche, interruzione del segnale cellulare, legame a recettori nucleari o induzione di stress ossidativo.
I risultati di questo studio suggeriscono un collegamento tra alcuni profili di esposizione ai pesticidi e l’insorgenza di cancro al seno in post-menopausa. “Ma per confermare questi dati – concludono gli esperti – è essenziale da un lato condurre studi sperimentali per chiarire i meccanismi coinvolti e, dall’altro, confermare questi risultati in altre popolazioni“.
Fonti: International Journal of Epidemiology / INSERM
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