Se l'alimentazione è importante per noi che viviamo secondo uno stile di vita piuttosto sano e godiamo delle comodità della società moderna, in aree di guerra e povertà nutrirsi diventa fondamentale. Per questo Emergency, che cura i poveri del mondo da vent'anni, ha a cuore anche l'alimentazione dei propri pazienti.
Se l’alimentazione è importante per noi che viviamo secondo uno stile di vita piuttosto sano e godiamo delle comodità della società moderna, in aree di guerra e povertà nutrirsi diventa fondamentale. Per questo Emergency, che cura i poveri del mondo da vent’anni, ha a cuore anche l’alimentazione dei propri pazienti.
Ce lo ha raccontato con passione il vicepresidente di Emergency, Alessandro Bertani, intervistato dal noto giornalista Stefano Momentè durante la V edizione del Festival Vegetariano a Gorizia.
Emergency opera quasi sempre in scenari di guerra combattuta. Afghanistan, Sudan, Sierra Leone e altri ancora. In ognuno di questi paesi l’organizzazione fondata da Gino Strada ha curato centinaia di migliaia di feriti e malati. Dal 1994 gli operatori di Emergency hanno assistito oltre 6 milioni di persone in 16 paesi.
La guerra non è l’unico male che combattono. Una piaga mai sanata, ma tornata prepotentemente di attualità negli ultimi anni, è la schiavitù. Sì, nel mondo e in Italia esistono ancora moltissime persone schiave. Si pensi, ad esempio, alle piantagioni di pomodori nel Mezzogiorno. Esseri umani che “guadagnano” due euro l’ora, con i quali debbono pagarsi anche il trasporto fino al terreno dove lavorano, il cibo e l’affitto del materasso sotto l’albero su cui crollano esausti a fine giornata.
La guerra, tuttavia, è diversa: «Schiavitù, stupro, incesto… sono azioni che, anche se non sono scomparse, almeno chi le pratica oggi se ne vergogna – dice Bertani – ma non ho ancora trovato chi si vergogna di fare la guerra». E mette in guardia: «Ogni volta che ‘guerra’ è accompagnata da un aggettivo – preventiva, umanitaria – non fatevi distrarre dall’aggettivo. È sempre guerra».
Fornire cibo gratuitamente ai pazienti è indispensabile. Il problema nasce dal momento che nei paesi poveri, paradossalmente, la sanità è per lo più privata: chi ne avrebbe davvero bisogno – milioni di persone – non può permettersela. Di conseguenza i pazienti arrivano presso gli ospedali di Emergency pesantemente denutriti, oltre che feriti. Nelle loro deboli condizioni non sono in grado di sostenere un intervento chirurgico. E i numeri forniti dal vicepresidente Bertani dicono che Emergency fornisce oltre 80mila pasti al mese.
Sì, ma quali pasti? Alcuni ospedali, come il Centro Salam di cardiochirurgia a Kartoum, in Sudan, accolgono i feriti e i malati di mezza Africa. Il Centro è infatti una struttura altamente specializzata, in cui sono stati operati pazienti provenienti da 26 diversi paesi, compresi alcuni italiani che si trovavano in Sudan. Per questo negli ospedali diventa essenziale saper rispettare le tradizioni culturali, religiose e alimentari di tutti. E naturalmente non mancano i piatti vegetariani, preparati su richiesta delle persone in cura. Il vantaggio di operare in Africa, in questo senso, è che molti piatti locali sono di base già vegetariani.
Il problema alimentare sussiste anche in Italia, dove Emergency ha sentito la necessità di aprire due poliambulatori: uno a Marghera (Venezia) e uno a Palermo. Qui i pazienti, in maggioranza migranti, abbisognano delle stesse attenzioni dei loro compagni nel mondo. Spesso infatti seguono un‘alimentazione completamente sbilanciata, nutrendosi solo di pasta e riso o di pomodori. Inoltre a volte non possono nemmeno assumere i farmaci giornalieri dopo i pasti… per la semplice ragione che non sempre hanno da mangiare.
L’intervento del vicepresidente di Emergency, Alessandro Bertani, termina per fortuna col sorriso. Perché noi italiani, di buona forchetta, esportiamo nel mondo la nostra cucina. Le famiglie locali imparano presto i nostri piatti forti, a volte preparati insieme agli operatori di Emergency. La sfida, per loro, come racconta Bertani, è atipica: «È sempre curioso vedere dopo quanti giorni i nostri pazienti raggiungono il punto di saturazione dalla pastasciutta».
Lorenzo Alberini