Così le nanoplastiche che entrano nel nostro organismo sono persino in grado di alterare le normali funzionalità delle nostre cellule ossee: la scoperta emerge da un nuovo studio interdisciplinare condotto dall'Università di Milano
Tanto minuscole quanto deleterie per gli ecosistemi, gli animali e la nostra stessa salute. Le nanoplastiche sono una grande piaga per il nostro Pianeta. Entrando nella catena alimentare, queste particelle praticamente invisibili si “inflitrano” nel nostro organismo, andadosi ad accumulare. Ancora, purtroppo, non sono del tutto noti gli effetti di questa esposizione sui vari organi, anche perché si tratta di un tema ancora poco approfondito dalla comunità scientifica.
Ma da un recente studio interdisciplinare dell’Università degli Studi di Milano è emerso che, per via delle loro ridottissime dimensioni (che vanno da 1 a 100 nanometri), le nanoplastiche sono in grado di interagire direttamente con le cellule ossee, andandone a modificare le nomali attività.
Ciò significa che questi piccoli contaminanti alterano il microambiente osseo. Secondo la ricerca pubblicata su Science Direct – Journal of Hazardous Materials, porterebbero dunque ad una maggiore suscettibilità a sviluppare patologie legate all’impoverimento osseo.
Sia le nanoplastiche che le microplastiche sono estremamente persistenti. Ad esempio quelle provenienti da fibre tessili sintetiche possono restare fino a cinque anni nell’atmosfera ed essere trasportate dal vento. Quindi l’inalazione rappresenta un’importante via di ingresso per questi contaminanti.
A oggi esistono pochi studi inerenti agli effetti indotti dall’esposizione alle nanoplastiche su modelli ecotossicologici e ancora meno studi sull’uomo – spiega la dottoressa Lavina Casati, co-autrice del lavoro – Proprio da questo nasce la nostra ricerca, che ci ha permesso di descrivere l’azione di questi contaminanti sull’osso, usando un modello in vitro che potesse fornirci una visione ad ampio spettro.
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In che modo le nanoplastiche possono alterare le cellule ossee
Per poter scattare la fotografia del microambiente osseo, i ricercatori si sono serviti delle tre principali tipologie cellulari coinvolte nel mantenimento della massa ossea, cioè:
- i precursori degli osteoblasti, (le cellule che depongono l’osso)
- gli osteociti (considerati i controllori del processo di rimodellamento osseo)
- i precursori degli osteoclasti (ovvero le cellule che lo degradano)
Adottando tecniche di colture cellulari, gli studiosi hanno esposto queste cellule a delle nanoplastiche fluorescenti di dimensioni pari a 50 nanometri, verificando l’effettivo ingresso delle nanoplastiche nella cellula e la loro localizzazione grazie a tecniche di imaging e citofluorimetria. Le nanoplastiche sono, infatti, in grado di entrare nelle cellule in un modo sia attivamente che passivamente e vanno a localizzarsi a livello citoplasmatico.
In un secondo momento sono stati poi valutati gli aspetti tossicologici, attraverso saggi enzimatici e colorimetrici e parametri funzionali. Il team di ricercatori ha quindi scoperto che le nanoplastiche riducono la vitalità delle cellule, ne aumentano la morte e inducono la formazione di radicali liberi. Invece, a livello funzionale, questi miniscoli frammenti di plastica alterano la capacità migratoria degli osteoblasti e potenziano il riassorbimento indotto dagli osteoclasti.
Infine descrivere al meglio anche l’effetto delle nanoplastiche a livello molecolare, è stato analizzato l’impatto sull’espressione di geni coinvolti nel mantenimento della massa ossea. In questo caso i ricercatori hanno potuto notare un coinvolgimento di geni relativi all’innesco di processi infiammatori nei precursori degli osteoblasti e negli osteociti e un’induzione dei geni coinvolti nei processi differenziativi degli osteoclasti.
“Anche se saranno necessari ulteriori studi per delineare al meglio la complessa interrelazione tra nanoplastiche e rimodellamento osseo a livello della salute umana, questo studio ci permette di iniziare ad esplorare nuovi orizzonti inerenti ai contaminanti ambientali e al loro impatto sull’uomo” conclude la dottoressa Casati.
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Fonte: Università degli Studi di Milano
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