La psicologia del carnivoro: ecco perché continuiamo a mangiare gli animali (#festivalveg2013)

Perché mangiamo animali? La psicologia del carnivoro spiegata da Annamaria Manzoni al Festival Vegetariano di Gorizia

Perché mangiamo animali? La domanda non è banale. E a chi risponde con un nuovo interrogativo («perché non dovremmo?»), è semplice fornire una risposta.

Gli animali fanno parte da sempre della vita dell’uomo, in ogni forma: vivono insieme a noi, li citiamo nelle nostre metafore e nella nostra simbologia («è furbo come una volpe!»), sono i protagonisti del calendario cinese e dello zodiaco. Riempiono i nostri schermi quando va in onda la pubblicità alla televisione: chi non è in grado di accostare un tenero cagnolino alla soffice carta igenica?

Gli animali accompagnano addirittura presidenti e papi nella loro vita privata e, talvolta, pubblica. Allora perché, nonostante questa simbiosi ancestrale, manteniamo con gli animali un rapporto che è sempre di subordinazione e violenza?

Basti pensare ai macelli, alla vivisezione, agli allevamenti intensivi. Tutti, o quasi, ne traiamo vantaggio e ne siamo indirettamente responsabili. Al Festival Vegetariano di Gorizia la dottoressa Annamaria Manzoni ha spiegato in un’esposizione chiara e completa come la nostra mente riesce a nascondere il nostro amore per gli animali, sottomettendolo al nostro appetito.

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Il tutto in sei piccoli «meccanismi»:

1) Omocentrismo: fin dalle origini della nostra esistenza abbiamo sempre pensato di essere al centro dell’universo. Noi, esseri superiori a tutte le altre specie, possiamo fare delle altre ciò che più ci piace. Ci hanno plasmato in questo senso le grandi religioni monoteiste dicendoci che solo l’uomo ha un’anima. Ci plasma ogni giorni il linguaggio che utilizziamo per denigrare chi compie azioni riprovevoli: «una bestia, un animale». Ma un animale violenterebbe mai un bambino? Farebbe mai a pezzi un suo simile per odio o vendetta?

2) Disimpegno morale: se scolleghiamo i nostri atti dalla morale che generalmente ci guida, nessun senso di colpa verrà mai a tenerci svegli la notte. Se normalizziamo la violenza solo perché accade, il passo successivo sarà legalizzarla. Una volta legalizzata, sarà ancor più ritenuta la norma. Il circolo vizioso ha inizio.

3) Confronto vantaggioso: «Cosa vuoi che siano una o due oche spennate vive per farmi il piumino, quando in Siria muoiono ogni giorno donne e bambini sotto le bombe?». Eppure una violenza spropositata non può trasformarne una meno tragica in un atto normale. La vivisezione non è meno grave solo perché l’uomo è capace di compiere azioni doppiamente riprovevoli.

4) Dislocamento delle responsabilità su chi è più autorevole: «se nei mattatoi vengono trucidate le mucche, è colpa mia? Sarà colpa di chi taglia loro la gola, del capo che glielo ordina, dell’amministratore delegato che possiede l’impresa… ma non mia che la mangio!». È facile obbedire al sistema, ben più arduo è disobbedire per cambiare lo stato delle cose. Per rovesciare il sistema.

5) Rimozione: quando qualcosa non ci piace, semplicemente lo eliminiamo dai nostri pensieri. Spostiamo il pensiero nel campo del subconscio, così che non torni più a tormentarci mentre addentiamo una bistecca sanguinolenta o mentre ci stringiamo nel nostro piumino caldo. È uno dei più diffusi meccanismi di difesa della nostra mente.

6) Negazione: non siamo in grado di controbattere una realtà presentataci in tutta la sua cruda violenza? Allora la neghiamo: «Non parlarmene nemmeno! Non voglio sapere, non farmici pensare!». È così che inibiamo qualsiasi reazione alla crudeltà del sistema carnivoro, illudendoci che un posto da spettatori sia migliore del ruolo del carnefice. Ma la vittima è già nei nostri piatti e ogni giorno ci guarda attraverso gli occhi vitrei che qualcuno le ha cavato perché noi potessimo nutrircene senza provare alcun senso di colpa.

Lorenzo Alberini

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