La carenza di vitamina D sarebbe una “pseudo-malattia”, a significare che non esisterebbe alcuna associazione tra livelli di vitamina D e il rischio di fratture.
Una “pseudo-malattia” per giustificare la vendita di integratori: l’ipotesi che rivoluziona il concetto di fabbisogno di vitamina D
Fa bene alle ossa, previene molte malattie come tumori o disturbi neurovegetativi e combatte le infezioni, ma siamo sicuri che abbiamo proprio bisogno degli integratori di vitamina D? C’è addirittura chi suppone che, quando si parla di “carenza di vitamina D”, si sfiori il concetto di “pseudo-malattia”, a significare che, per esempio, non esisterebbe alcuna associazione tra livelli di vitamina D e il rischio di fratture.
È la provocazione che arriva dal professor Tim Spector, docente di Epidemiologia genetica al King’s College di Londra, che sul giornale accademico senza scopo di lucro The Conversation ha elencato alcuni studi secondo cui la carenza di questa vitamina sarebbe stata inventata per vendere integratori.
Già nei mesi scorsi l’Associazione Medici Endocrinologi aveva tentato di far chiarezza su questi argomenti pubblicando linee guida ad hoc sul trattamento del deficit da Vitamina D, ma ora la sua carenza arriva al centro di un vero e proprio dibattito.
La vitamina D – un gruppo di pro-ormoni liposolubili composto in realtà da 5 distinte vitamine – è stata utilizzata per la prima volta per curare il rachitismo nei bambini che vivevano in condizioni di povertà e viene ora somministrato di routine per prevenire e curare le malattie delle ossa fragili (osteoporosi) e le fratture. Inoltre, è stata associata a un rischio ridotto di oltre un centinaio di malattie comuni negli studi osservazionali, che vanno dalla depressione al cancro.
Uno dei più grandi studi clinici nella prevenzione delle fratture e sui benefici della vitamina D, pubblicato sul British Medical Journal, ha coinvolto più di 500mila persone provenienti da diversi Paesi e i casi di ben 188mila fratture. Dalle analisi statistiche non sono emerse associazioni tra fratture e livelli ematici di vitamina D, misurati grazie a marcatori genetici. Ciò ha permesso di superare i limiti degli studi di osservazione, sulla base dei quali non si può avere un rapporto di causa-effetto.
Insomma, se la vitamina D non previene le fatture, con le nuove indagini ci si chiede perché preoccuparsi quando ci sono bassi livelli ematici di questa vitamina. Ma la questione si pone soprattutto quando si è effettivamente innanzi a una carenza di questa sostanza, che si produce nel nostro organismo grazie alla luce solare ma si assume anche attraverso alcuni alimenti, come il pesce o il succo d’arancia.
“Abbiamo creato un’altra pseudo-malattia che è incoraggiata dalle aziende di integratori, dai gruppi di pazienti, dai dipartimenti di sanità pubblica e dalle organizzazioni di beneficenza. A tutti piace credere in una pillola di vitamine miracolosa”, afferma Spector.
Quel che confonde le idee è anche la mancata coerenza nei vari sistemi sanitari: negli States, per esempio, si ritiene normale una concentrazione tra 50 e 80 nanomoli per litro di sangue, tuttavia una ricerca condotta in Australia ha dimostrato che sono sufficienti 30 nanomoli. Proprio in base a questi dati divergenti, per tantissime persone viene indicata una carenza di vitamina D, una vera e propria pseudo-malattia, perché la vera carenza, come dice Spector, è quando si hanno meno di 10 nanomoli per litro di sangue.
Gli integratori, quindi? Sono quasi sempre inutili e superflui e lo scienziato conclude suggerendo di assumere la vitamina D semplicemente con piccole dosi di sole e attraverso la giusta alimentazione, evitando costosi integratori.
Qui trovate tutto ciò che c’è da sapere sugli integratori di vitamina D.
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Germana Carillo