Un nuovo studio conferma un preoccupante collegamento tra gli allevamenti intensivi e l'antibiotico-resistenza. 7 casi su 10 di infezioni resistenti negli Usa sono attribuibili al consumo di pollo
L’antibiotico-resistenza si verifica quando i batteri sviluppano la capacità di resistere agli antibiotici, rendendo le infezioni più difficili da trattare. Si tratta di una vera e propria emergenza sanitaria che potrebbe portare alla morte di quasi 40 milioni di persone entro il 2050, come stimato da uno studio. Ma cosa c’entra il pollo?
C’entra eccome, già diverse ricerche scientifiche hanno tracciato un collegamento tra gli allevamenti intensivi di pollame e lo sviluppo di questo preoccupante fenomeno. Negli allevamenti intensivi, infatti, l’uso eccessivo di antibiotici per prevenire malattie e promuovere la crescita degli animali ha portato allo sviluppo di ceppi di batteri resistenti, che si trasferiscono poi all’uomo attraverso il consumo di carne contaminata, alimentando così il problema dell’antibiotico-resistenza.
Recentemente un nuovo studio, condotto dai ricercatori dell’Ineos Oxford Institute for Antimicrobial Research e pubblicato sul Journal of Infection, ha confermato che il pollo è una delle principali fonti di infezioni da Campylobacter (batterio farmaco-resistente) negli Stati Uniti.
Il Campylobacter è un batterio che causa infezioni intestinali e viene frequentemente trasmesso tramite carne poco cotta o cibo contaminato. Le infezioni che provoca, causando sintomi come diarrea, febbre e crampi addominali, sono tra le malattie batteriche più comuni trasmesse dagli alimenti negli Stati Uniti. In alcuni casi, soprattutto tra le persone con un sistema immunitario compromesso, tali infezioni possono portare a complicazioni gravi e ospedalizzazioni.
I risultati dello studio
Lo studio è stato condotto utilizzando dati genomici da 8.856 campioni di infezioni umane e confrontandoli con 16.703 genomi provenienti da potenziali fonti animali (pollame, bovini, uccelli selvatici e suini), i ricercatori hanno potuto così tracciare le origini delle infezioni.
Questa analisi ha rivelato che il pollame è la principale fonte di infezioni da Campylobacter, seguito dal bestiame, che contribuisce al 28% dei casi. Gli uccelli selvatici e il maiale, invece, giocano un ruolo marginale, contribuendo rispettivamente solo al 3% e all’1% delle infezioni.
I risultati rivelano che ben il 68% dei casi di infezioni da Campylobacter tra il 2009 e il 2019 erano legati proprio a pollame contaminato, quasi 7 casi su 10 quindi. Un dato che sottolinea l’urgenza di affrontare le problematiche sanitarie legate al pollo, che è la carne più consumata negli Stati Uniti (e non solo).
Il professor Samuel Sheppard, a capo della ricerca, ha dichiarato:
Abbiamo dimostrato che non solo il pollame è un serbatoio significativo di infezioni da Campylobacter, ma che la resistenza antimicrobica sta aumentando nel bestiame, soprattutto nel pollame. Per proteggere noi stessi e i nostri antibiotici, l’industria avicola deve agire con urgenza per ridurre la diffusione dell’infezione tra i polli.
Al contrario di quanto dovrebbe avverire, però, continuano le pressioni esercitate dagli allevatori statunitensi che cercano di mantenere l’uso di antibiotici senza restrizioni. Questa opposizione è stata evidenziata in un’inchiesta condotta dall’organizzazione US Right to Know, che ha rivelato alcune manovre delle lobby per eliminare obiettivi concreti per la riduzione dell’uso di antibiotici negli allevamenti durante le recenti riunioni delle Nazioni Unite.
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Fonte: Journal of Infection
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