“Restano solo sessanta raccolti” prima di una carestia mondiale e definitiva: intervista a Philip Lymbery, autore anche di Farmageddon

“Niente suolo, niente cibo. Fine dei giochi”, Philip Lymbery presenta il suo ultimo lavoro e ci va giù dritto, prendendo le mosse dall’avvertimento delle Nazioni Unite: il modello attuale di produzione alimentare rappresenta ormai, solo e soltanto, una minaccia per il Pianeta. Ma possibile che non ci sia proprio nessuna speranza?

Ciò che mi fa arrabbiare di più è la crudeltà sugli animali” e sa bene di cosa si tratta. Philip Lymbery, direttore esecutivo globale di Compassion in World Farming e presidente dell’Eurogruppo per gli animali con sede a Bruxelles, torna con un nuovo saggio, concentrandosi proprio sulla catena alimentare globale. E ci sfida: proviamo a “ripensare a ciò che compriamo e mangiamo e all’impatto che questo ha sul cambiamento climatico e quindi sulle nostre vite”.

Così, in “Restano solo sessanta raccolti – Come raggiungere un futuro in armonia con la natura” (Nutrimenti, 2023), l’autore di “Farmageddon”, (Nutrimenti, 2015) – indicato come libro dell’anno dal Times – affronta il tema dei mega-allevamenti, i cui prodotti chimici, gabbie per animali ed emissioni hanno spazzato via la campagna, mettendo a repentaglio l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, il cibo che mangiamo. Nelle sue indagini, però, Philip Lymbery trova posto anche per la speranza in chi combatte per riportare alla vita i paesaggi rurali, chi ripensa nuovi metodi di agricoltura e allevamento.

Con lui abbiamo scambiato due (meravigliose) chiacchiere.

Cosa intende con i “sessanta raccolti” che restano?

Restano solo sessanta raccolti” si riferisce all’allarme lanciato dalle Nazioni Unite secondo cui, se continuiamo a produrre cibo come stiamo facendo adesso, ci restano solo sessant’anni prima che i suoli del mondo diventino inutilizzabili o vengano persi. Niente suolo, niente cibo. Fine dei giochi.

libro lymbery

©Nutrimenti (linkaffiliazione)

Lei ha iniziato a fare campagne sugli animali da allevamento nel 1990, quando tutto ciò era ancora visto come un problema di “semplice” crudeltà piuttosto che come qualcosa che andava ben oltre. Oggi qualcosa è cambiato?

Negli ultimi 30 anni sono cambiate molte cose. C’è maggiore consapevolezza della crudeltà degli allevamenti intensivi verso gli animali – tenuti in gabbia, stipati e richiusi in capannoni per produrre carne “economica”.  Si è più consapevoli del fatto che il vero prezzo di quella carne “a basso costo” non è solo la sofferenza degli animali, ma anche il cibo insalubre, il declino ambientale e ora il degrado del suolo. In Europa, delle norme hanno posto freno alcune delle crudeltà più eclatanti: sono stati vietati almeno parzialmente gli i recinti individuali per i vitelli e le gabbie di batteria per le galline. Ma la realtà è che il numero di animali negli allevamenti intensivi non è mai stato così alto, allevati industrialmente, in modo crudele e dannoso per il pianeta. E ciò deve cambiare, e in fretta, se vogliamo garantire un futuro ai nostri figli.

Eppure vige ancora il mito per cui l’agricoltura intensiva sia un modo efficiente di produrre cibo e di risparmiare spazio. Ne è esempio il grattacielo di 26 piani in cui in Cina si punta ad allevare oltre 600mila maiali…

Ha ragione, la convinzione errata che l’allevamento intensivo sia efficiente continua a essere un luogo comune, affinché grandi aziende possano trarre enormi profitti dalla vendita agli allevatori di tutti gli “orpelli” del sistema industriale: fertilizzanti chimici, pesticidi, antibiotici, mangimi per gli animali e gabbie e recinti individuali dove rinchiuderli. Eppure, la verità è che – tenendo gli animali al chiuso – diventa necessario destinare altrove enormi aree per produrre mangime. Sono terreni che potrebbero sfamare le persone, se solo gli animali fossero allevati al pascolo. In questo modo, ogni anno viene sprecata come mangime una quantità di cibo enorme, sufficiente a nutrire quattro miliardi di persone – ovvero la metà della popolazione umana oggi vivente. La realtà è che gli allevamenti intensivi non producono cibo, lo sprecano.

Per il terzo anno consecutivo, il governo britannico consente agli agricoltori di utilizzare un pesticida vietato (il thiamethoxam) e ciò avviene subito dopo che lo stesso governo Unito ha sostenuto un obiettivo globale di riduzione dei pesticidi ai colloqui sulla biodiversità delle Nazioni Unite COP15 a Montreal e dopo che l’Unione europea ha imposto restrizioni più severe contro questo tipo di pesticida. Cosa pensa in merito.

I governi sono ormai prigionieri delle trappole dell’agricoltura intensiva, che si tratti di gabbie o di pesticidi chimici, e spetta a noi cittadini far capire che questo non è più accettabile. Abbiamo bisogno che i governi abbandonino l’agricoltura intensiva in tutte le sue forme e incoraggino invece l’adozione capillare di sistemi agricoli rigenerativi e rispettosi della natura, privi di sostanze chimiche e gabbie.

Nel 2015 lei coniò una potentissima parola che fu “Farmaggedon” e titolo di un fortunatissimo libro che metteva in luce il vero costo della carne economica. Proprio oggi, invece, sul The Guardian leggiamo che gli scienziati hanno coniato un altro termine: “phosphogeddon”, per indicare che l’uso improprio del fosforo potrà portare a carenze mortali di fertilizzanti che interromperebbero la produzione alimentare globale (Fonte: The Guardian). Insomma, le parole che voi studiosi ci restituite continuano parlare di “catastrofe”…

Sì, e dopo la pubblicazione di Farmageddon, degli scienziati hanno parlato anche di “insectogeddon” per descrivere il catastrofico declino delle api impollinatrici e di altri insetti essenziali per la nostra sopravvivenza. Quindi, quel termine, Farmageddon, ha davvero contribuito a riassumere la portata e l’urgenza del problema. Si tratta di una battaglia epica, che ci tocca tutti, tra sistemi di allevamento crudeli e distruttivi per il nostro futuro e un’agricoltura più rispettosa degli animali e della natura, in cui gli animali vivono come natura vuole, all’aperto, in un sistema di allevamento misto ed ecologicamente sostenibile.

Nel suo nuovo saggio “Restano solo sessanta raccolti” in cui affronta il tema dei mega-allevamenti (sia sulla terraferma che in mare), lei scrive: “La speranza senza una prospettiva di azione è una falsa speranza, che in realtà dovrebbe farci molto arrabbiare”. Cos’è che fa arrabbiare più di ogni altra cosa Philip Lymbery?

La crudeltà verso gli animali. È ciò che mi fa arrabbiare di più. Gli animali meritano di meglio. Non chiedono molto. Solo aria fresca, sole e la compagnia dei loro simili. Di avere l’opportunità di sperimentare la gioia di vivere. Eppure, negli allevamenti intensivi, togliamo loro tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Questo mi fa arrabbiare. Una rabbia che cresce ancora di più quando penso a come questo stia rovinando anche le prospettive per il futuro dei nostri figli.

Nel suo saggio cita David Attenborough e si dice vicino al suo pensiero secondo cui “esiste ancora una molteplicità di soluzioni (cito) che si combinano per creare un futuro sostenibile”. Mi dica, allora, in ultima analisi: se potessimo fare solo un’unica cosa per la salute del Pianeta quale sceglierebbe?

Un’agricoltura rigenerativa e rispettosa della natura è la soluzione migliore che possiamo adottare. Riportare gli animali allevati a scopo alimentare al loro posto, all’interno di un paesaggio vivo, dove possano godere di aria fresca e sole. Dove possano essere allevati con alti standard di benessere animale. E dove la fauna selvatica, i corsi d’acqua, l’aria e il suolo siano tutelati. In modo da produrre il cibo migliore e più nutriente. Ecco dove vedo il futuro dell’alimentazione e dell’agricoltura.

Nel suo saggio fa un’interessante disamina sulla situazione dell’agricoltura italiana, sui nostri allevamenti e sul consumo del suolo. Qui in Italia (lei cita il WWF) “l’agricoltura è la prima causa della perdita di specie selvatiche e habitat naturali, dell’inquinamento delle acque superficiali e sotterranee da pesticidi e nitrati”, secondo lei cosa manca alle aziende italiane perché il modello sostenibile che narrano non sia solo di facciata? Dov’è il gap?

A mio avviso, molte aziende e politici sono rimasti fermi al paradigma degli anni Novanta: hanno fiducia nell’agricoltura intensiva e credono che possa essere ritoccata per diventare sostenibile. Ma, sempre più spesso, siamo chiamati a rivedere il nostro punto di vista, orientare la nostra bussola, per sfuggire all’inevitabile Farmageddon a cui questo sistema industriale ci porterebbe. E a rendersi conto, invece, che è urgente passare a un’agricoltura rigenerativa e rispettosa della natura. Un’agricoltura basata sul trattamento più rispettoso degli animali, su allevamenti misti e a rotazione che permettano il ritorno della flora e fauna selvatica e ripristinino la salute del suolo. In questo modo, possiamo trasformare l’attuale scenario di ‘sessanta raccolti rimasti’ in uno di raccolti infiniti e di un futuro pieno di vita per le future generazioni.

Grazie mille, Philip.

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