In occasione dell'uscita in Italia del suo ultimo libro "Il cuore selvaggio della natura", lo scrittore statunitense ha condiviso le sue esperienze di esplorazione in alcuni dei luoghi più remoti e selvaggi della Terra, per riflettere sulla sua fragilità e su come possiamo tutelarla
David Quammen non ha dubbi su cosa dobbiamo fare per affrontare la crisi ambientale e climatica che sta modificando l’intero Pianeta, funestando e condizionando soprattutto l’esistenza dei popoli più poveri e degli ecosistemi più fragili. “Non possiamo disperare, non ne abbiamo il diritto. Dobbiamo continuare a lottare, per salvare tutto ciò che possiamo”, ha raccontato ai microfoni di GreenMe.
Acclamato scrittore e divulgatore scientifico, con il suo ultimo libro “Il cuore selvaggio della natura. Dispacci dalle terra della meraviglia, del pericolo e della speranza” (Adelphi, 2024), il 76enne americano, che da 50 anni ha deciso di vivere in una casa in legno nel Montana, ci ha regalato una preziosissima raccolta di reportage realizzati nell’arco di vent’anni. Un denso diario di bordo in cui sono state documentate le esplorazioni che l’hanno catapultato in alcuni dei luoghi più remoti e selvaggi della Terra.
In 440 pagine, Quammen ci porta, in compagnia della etologa Jane Goodall e dell’ecologo Mike Fay, nella foresta pluviale del Congo, per poi visitare le distese desertiche del Niger, i sentieri liquidi della Kamcatka, i mari incontaminati e le isole solitarie della Terra di Francesco Giuseppe ma anche i villaggi della Costa d’Avorio, dove il virus Ebola ha portato morte e sofferenza.
In questa vasta raccolta di reportage, quale luogo, in particolare, l’ha colpita per la sua biodiversità?
È difficile scegliere. Ma se devo, direi la foresta della Repubblica del Congo. Ho avuto l’opportunità di visitarla più volte, anche in occasione del mio primissimo incarico per la rivista National Geographic, per la quale ho realizzato tre storie su Mike Fay e la sua epica spedizione a piedi attraverso le foreste dell’Africa centrale. Abbiamo esplorato un luogo molto remoto, quasi incontaminato dall’uomo e ricco di biodiversità: piante, animali, batteri, funghi, ogni tipo di creatura. Camminavamo per giorni con sandali e pantaloncini, dormivamo per terra e mangiavamo da una pentola insieme al fotografo Nick Nichols e la squadra africana che aiutava Mike. È stata l’opportunità più incredibile e forse la sfida più difficile della mia vita come giornalista e scrittore sulla biodiversità.
A proposito di difficoltà, quali sono state le sfide più impegnative che ha dovuto affrontare?
Dovevamo stare attenti a non calpestare serpenti velenosi come la vipera del Gabon o a non disturbare le colonie di formiche legionarie, che potevano essere molto dolorose. Quando ci tagliavamo e graffiavamo, era indispensabile scongiurare il rischio di infezioni. Avevamo a disposizione cibo frugale e acqua prelevata dalle paludi e dai fiumi, considerata sicura. Eppure, mi sono ammalato, e insieme a me un ragazzo della squadra africana, che ha rischiato la vita. Sono tornato negli Stati Uniti e sono stato ricoverato in ospedale con una febbre molto alta. Nonostante questa disavventura, è stata un’esperienza talmente straordinaria da spingerci a ridere, anche nei momenti più difficili, come quando abbiamo dovuto guadare una palude o tagliare la vegetazione: abbiamo trascorso intere giornate con il machete in mano avanzando solo di 1 km. Ma siamo riusciti anche a salvarci dalla carica di un elefante: in quell’occasione, ho creduto di morire.
Nel suo libro, parla di natura selvaggia e del suo “cuore pulsante”. Che cosa intende con questa espressione?
Il cuore pulsante della natura selvaggia è l’insieme di quattro fattori imprescindibili. Prima di tutto, la scala: la natura selvaggia deve essere abbastanza grande da supportare tutti i tipi di specie viventi. Inoltre, deve essere connessa, dunque non frammentata in piccoli sezioni da strade, villaggi e sentieri. In terzo luogo, deve ospitare biodiversità, dunque tutte le creature native originali. Infine, deve vivere di processi ecologici, e dunque ospitare un ecosistema funzionante. Questo significa che ha bisogno di predatori e prede, per favorire la competizione tra diverse specie, della fotosintesi delle piante, della decomposizione garantita da batteri e altri microbi e del parassitismo, che fa parte della biodiversità stessa. Un’area che presenta queste quattro caratteristiche è un ecosistema animato da un cuore pulsante.
Come ci stiamo comportando con la natura selvaggia e in cosa dobbiamo e possiamo migliorare?
La buona notizia è che stiamo imparando. Anche il grande pubblico sta conoscendo sempre meglio i grandi problema di oggi, come il cambiamento climatico, e il suo legame con la perdita di biodiversità, la minaccia di malattie pandemiche emergenti e come sia collegata alla distruzione degli ecosistemi selvaggi. Stiamo facendo progressi, anche se non sono ancora sufficienti. La cosa più importante è raggiungere i giovani e aiutarli a comprendere che la causa ultima di questi tre emergenze, e la loro interconnessione, sono il boom demografico e consumistico. Voglio essere speranzoso e proprio per questo sostengo che siamo ancora in grado di salvare gran parte della biodiversità.
Non a caso, scrive “è tardi ma non è troppo tardi” per cambiare le cose nel nostro relazionarci all’ambiente naturale.
Credo che la speranza non sia una condizione psicologica o uno stato d’animo ma un dovere. Non sono una persona particolarmente ottimista. Mi potrei definire un pessimista speranzoso. Per questo dico che dobbiamo continuare a lottare. Non possiamo disperare, non ne abbiamo il diritto. Dobbiamo continuare a impegnarci per salvare tutto ciò che possiamo.
Quanto è importante guidare i consumatori per salvaguardare la biodiversità?
Voglio ricordare che ciò che sta distruggendo la popolazione e la biodiversità, erodendola e cancellandola in tutto il pianeta è una combinazione di aumento demografico e consumismo. Alcune persone dicono, ‘beh, in alcuni di Paesi africani il tasso di natalità è troppo alto e le famiglie sono troppo numerose’. No, questo è il modo sbagliato di pensarla. Il problema è l’aumento demografico moltiplicato per il consumo. Gli Stati Uniti presentano un basso tasso di crescita demografica ma un tasso di consumi molto alto. Ed è un problema.
Qual è il rapporto di Stati Uniti d’America e Europa con la biodiversità?
La biodiversità esiste principalmente al di fuori delle nazioni ricche. Non dovremmo mai dimenticare che Stati Uniti, Italia, Francia, Gran Bretagna, Russia e Cina, che sono nazioni grandi, potenti e ricche, non offrono nemmeno lontanamente la biodiversità ospitata in altri Paesi, come la Repubblica Democratica del Congo, il Gabon, il Camerun, il Brasile, l’Indonesia e l’India. Sono loro le superpotenze della biodiversità. Per preservarla, è necessario sostenere la cooperazione tra nord e sud del mondo, tra le nazioni ricche in termini economici e quelle ricche in termini di biodiversità.
Nel suo libro parla anche del virus Ebola. Stiamo andando incontro a nuovi salti di specie? È previsto l’arrivo di una nuova pandemia? Da diverso tema parliamo del virus dell’influenza aviaria H5N1.
Questa è la grande domanda. Il pericolo dell’emersione di un nuovo virus, che si trasmette dagli animali selvatici agli esseri umani ed è capace di causare un’altra pandemia umana, c’è. La stagione delle minacce pandemiche non è di certo finita. Ce ne sono altre che ci attendono, e uno dei maggiori pericoli in questo momento è quello che hai menzionato, il virus dell’influenza aviaria H5N1 ad alta patogenicità. Sta circolando in tutto il mondo, uccidendo milioni di uccelli, sia domestici che selvatici, e si sta trasmettendo troppo frequentemente anche ai mammiferi. Un virus come l’influenza si evolve molto rapidamente ed è capace di adattarsi a nuovi tipi di ospiti. Questo tipo di virus non infetta facilmente gli essere umani e non si trasmette facilmente tra di loro. Tuttavia, ogni volta che aggredisce un altro uccello, e soprattutto ogni volta che aggredisce un altro mammifero, ha molte più opportunità di mutare. E queste mutazioni le forniscono l’assist per trasformarsi in un virus che potrebbe diventare devastante anche per noi. Potrebbe non succedere, così come potrebbe accadere domani, o la prossima settimana.
È attualmente impegnato nella stesura di un nuovo libro sul cancro come fenomeno evolutivo. Può darci qualche anticipazione?
È corretto. Questo è un argomento che mi interessa da oltre 17 anni, quando scrissi un articolo sul cancro proprio come fenomeno evolutivo. I tumori cancerosi possono evolversi per diventare più pericolosi, per eludere le chemioterapie, per essere più aggressivi, per essere più capaci di metastasi. Come fanno ciò? Ogni tumore è una popolazione di cellule che subiscono mutazioni. Mentre si moltiplicano, commettono errori nella copia dei loro genomi, favorendo così l’accumulo di variazioni genetiche da una cellula tumorale all’altra. In questo modo, quando un tumore inizia a svilupparsi e crescere nel nostro organismo, le cellule competono per i nutrienti, per il sangue, per l’ossigeno, per lo spazio e per l’opportunità di lasciare copie di se stesse. Si adattano costantemente per consumare risorse e fare copie di se stessi. È così che i tumori si adattano. Tra le modalità attraverso cui possono farlo, c’è un tipo di cancro contagioso, che si è diffuso alla fine degli anni ’80 nel nel diavolo della Tasmania, un piccolo animale marsupiale. Questo tipo di cancro, scoperto però solo nel 1996, si diffonde da un animale all’altro ed è sempre fatale. Sono stato in Tasmania tre volte per osservare questa situazione. Tornerò a novembre per condurre un’ultima ricerca. Tutto questo confluirà nel libro che sto scrivendo, dove cercherà di spiegare come questa scoperta può aiutarci a comprendere e trattare il cancro anche negli esseri umani e in altre creature.
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