Era il 21 febbraio 2020. Fino a quel giorno, stare vicini alle persone care, senza paura di un abbraccio, di una carezza non faceva paura
Era il 21 febbraio 2020. Fino a quel giorno, stare vicini alle persone care, abbracciarsi, un abbraccio, scambiarsi una carezza non faceva paura. I bambini e i ragazzi andavano a scuola, facevano sport e incontravano gli amici. Andavamo al lavoro, ci lamentavamo del traffico, della pioggia. Fino a quel giorno. Poi arrivò una notizia, che stava passando sotto silenzio: a Codogno un uomo, Mattia Maestri, era stato trovato positivo al coronavirus, quel virus che in Cina stava facendo tanto discutere.
“È una normale influenza”, queste le parole che circolavano forse più per rassicurarci o perché letteralmente ignoravamo ciò che sarebbe accaduto. Avevamo vissuto l’aviaria, la suina d’altra parte. Ma nel giro di pochi giorni, di un paio di settimane, la nostra vita è stata stravolta come mai prima.
Il paziente di Codogno
Il 21 febbraio Mattia, 38enne dipendente della società Unilever di Casalpusterlengo – il “paziente uno” – è stato trovato positivo, seguito poi dalla moglie incinta e da un loro amico. Poi è stata un’escalation che ha portato dapprima alla chiusura totale di alcune regioni italiane, tra cui la Lombardia, poi al lockdown totale: tutta l’Italia è diventata zona rossa. Era il 9 marzo. Il resto della storia lo conosciamo, dallo spiraglio della riapertura di maggio alla seconda ondata (e anche alla terza).
Fino a quel giorno Codogno era conosciuta solo dagli abitanti della regione o da quelle limitrofe ma dal 21 febbraio è stato impossibile non associarne il nome al coronavirus. La città di 15.000 abitanti è diventata il punto zero , la “capitale” inconsapevole della prima area in Europa ad adottare misure drastiche per limitare i contagi. Codogno e 10 comuni limitrofi della Lombardia, la più colpita in Italia, e un altro comune del Veneto, sono stati isolati dal mondo esterno. Sono stati allestiti posti di blocco e le città diventano deserti.
Un anno dopo
È passato un anno da quel giorno e ancora siamo in piena pandemia. Parole come lockdown, contagio, distanziamento, DAD, smart working, anticorpi, DPI, vaccini vengono ripetute centinaia di volte al giorno, quasi un’eco che ci accompagna e che quasi non sentiamo più. Ma non ci siamo ancora abituati e probabilmente non lo faremo mai a questa vita vissuta a metà, in preda all’incertezza.
In un anno di cose ne sono cambiate. Mattia, nonostante le gravi condizioni, è riuscito a farcela e ad aprile è diventato papà di Giulia. Quasi un messaggio, un segnale di speranza capace di riportarci coi piedi per terra e ricordarci che la vita continua ad andare avanti. Nonostante il covid.
Abbiamo poi scoperto che se anche quello di Codogno era il primo caso documentato, il Coronavirus era in Italia addirittura a dicembre, come hanno rivelato le analisi effettuate sulle acque reflue di alcune città italiane.
Doveroso parlare di numeri. Oggi, a un anno da quel terribile 21 febbraio, l’Italia conta 2,77 milioni di contagiati e quasi 95mila vittime. Oggi, un anno dopo il paziente 1, abbiamo più armi per combattere questa guerra ancora impari contro un nemico invisibile, che continua a mutare e a tornare in forme nuove.
Un anno dopo, è il Francesco Tursi a fare il punto. Tursi è il medico specialista di malattie polmonari di 47 anni dell’ospedale di Codogno che quel giorno venne catapultato da un momento all’altro nel mondo del coronavirus, prendendo in cura il primo paziente italiano.
“Ho visto questi pazienti soccombere a gravi problemi respiratori e avrei applicato tutto ciò che avevo studiato, tutto ciò che sapevo, ma a volte questi pazienti semplicemente non hanno risposto”, ha raccontato a reuters. “Questo ha lasciato i nostri cuori a pezzi e le nostre teste devastate.”
Poche settimane dopo, Tursi iniziò a sentire una stanchezza estrema, non spiegata dai suoi lunghi turni. Poi arrivarono forti dolori al petto. Aveva contratto il virus ed era stato ricoverato in un ospedale di Milano. “Il mio mondo è crollato”, ha detto, parlando a casa sua nella vicina città di Lodi. La moglie, Valentina Mondini era incinta di cinque mesi del loro primo figlio, Antonio.
“Ho pensato che forse l’intero anno sarebbe stato terribile per me, che forse la mia vita sarebbe finita”, ha detto. Invece, è guarito dopo circa sei settimane ed è tornato al lavoro a Codogno, questa volta con ancora più empatia per i pazienti COVID-19.
“Era un’arma aggiuntiva che potevo usare. Finalmente sono stato in grado di comprendere appieno ciò che stava provando un paziente.”
Un anno dopo Tursi è ancora in ospedale a Codogno, dove si prende cura dei malati di COVID-19 e offre loro speranza:
“Voglio vivere, voglio vivere per Antonio, per Valentina, voglio vivere per tutti”, ha detto. “Voglio vivere per i miei pazienti.”
Fonti di riferimento: Reuters