I vegetariani uccidono più animali degli onnivori?

La produzione di molti vegetali consumati dall'uomo può uccidere un numero di animali senzienti 25 volte superiore per chilogrammo di proteine utilizzabili prodotte, generando maggiori danni ambientali. È, in parole povere, una perdita di vite animali maggiore di quella causata da un normale consumo di carne

Quante volte avete sentito dire dagli animalisti che mangiare carne non è etico perché’ comporta l’uccisione di esseri senzienti, che l’allevamento danneggia l’ambiente, che spreca vegetali che sarebbero meglio impiegati per sfamare le persone? Non solo non è così, ma sarebbero proprio loro, i vegetariani, ad uccidere più animali degli onnivori che mangiano carne”.

Inizia così la nota di Federfauna, che sta sollevando un mare di polemiche tra animalisti, vegetariani e vegani. Il riferimento è a una ricerca australiana, che noi avevamo avuto modo di leggere qualche tempo fa, ma, individuati subito diversi limiti, non avevamo sentito l’esigenza di divulgare.

Ora, però, ci sembra arrivato il momento, per forza di cose, di spiegare bene di cosa stiamo parlando dal momento che i nemici degli animali hanno pensato bene di utilizzare questo studio per “portare acqua al proprio mulino” e screditare tutti quelli che hanno fatto una scelta etica, ambientale e salutare come quella di non mangiare più carne.

Tutto parte da Mike Archer, Professore australiano dell’Università del New South Wales e membro del gruppo di ricerca dell’Evolution of Earth and Life Systems Research Group. Archer sostiene, in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica The Conversation, che la produzione di molti vegetali consumati dall’uomo possa comportare l’uccisione di un numero di animali senzienti 25 volte superiore per chilogrammo di proteine utilizzabili prodotte, generando quindi maggiori danni ambientali. Ecco perché, in parole povere, per Archer chi mangia solo verdure è complice di una perdita di vite animali maggiore di quella causata da un normale consumo di carne.

Perché, spiega Federfauna riportando la ricerca, “mentre la maggior parte dei bovini macellati si nutrono al pascolo di vegetazione per lo più spontanea, la produzione di grano, riso e legumi richiede l’eliminazione di tale vegetazione autoctona e ciò si traduce nella morte di migliaia e migliaia di animali la cui vita era legata a quell’ecosistema e a quel tipo di vegetazione. Quindi, visto che dal pascolo non si ottengono vegetali che l’uomo possa consumare, per ottenere più vegetali consumabili dall’uomo è necessario distruggere nuova vegetazione spontanea, con le conseguenze appena descritte”.

Archer ha calcolato che dall‘abbattimento di un bovino cresciuto al pascolo si ottiene una carcassa di circa 288 Kg, la quale, una volta disossata, rende il 68% di carne, che al 23% di proteine è pari a 45 kg di proteine per animale ucciso. Questo significa che per ottenere 100 kg di proteine animali utilizzabili serva abbattere 2,2 animali.Chi ha avuto occasione, almeno una volta nella vita di soffermarsi a guardare l’aratura dei campi, si sarà sicuramente accorto – continua Federfauna- che il trattore è sempre seguito da stormi di uccelli predatori, dalle nostre parti soprattutto corvi e gabbiani. Questi uccelli non fanno altro che predare tutti i piccoli mammiferi, lucertole, serpenti e altri animali, soprattutto cuccioli, messi in fuga dal trattore. Il loro numero è difficilmente stimabile, ma elevatissimo”.

Poi ci sono gli animali che vengono uccisi per difendere i raccolti: viene avvelenata una quantità incalcolabile non solo di insetti e ragni, ma anche migliaia di topi. Archer ha stimato che nella coltivazione del frumento vengono uccisi almeno 100 topi per ettaro all’anno, quindi, con rese medie di circa 1,4 tonnellate per ettaro (visto che il frumento contiene il 13% di proteina utilizzabile) si può calcolare la morte di almeno 55 animali senzienti per produrre 100 kg di proteine vegetali utilizzabili. 25 volte di più che per la stessa quantità di carne bovina prodotta al pascolo.

Ovviamente Federfauna, leggendo tra le righe, ne ha voluto dedurre una “legittimazione”, servita su un piatto da argento, dell’allevamento e della caccia:considerino inoltre i “cari” animalisti, che questi animali soffrono di più di quelli uccisi nel ciclo di allevamento o nella caccia, perché a loro non è garantita ne’ la limitazione del dolore al minimo o lo stordimento preventivo che è garantito agli animali da macello, ne’ la morte istantanea che è assicurata a quelli selvatici cacciati”.

Ora, andando oltre le sterili provocazioni, quali sono i veri limiti di questa ricerca?

Punto primo, fa riferimento alla situazione australiana, dove i pascoli effettivamente sono più diffusi degli allevamenti intensivi che invece dominano prepotentemente il panorama della produzione di carne di Europa e America. Forse è anche per questo che la visione offerta da Archer sul consumo di carne, oltre che eccessivamente localizzata, appare piuttosto ristretta e riduttiva. Ignora completamente, ad esempio, il problema del consumo di suolo, cibo e acqua necessario per allevare gli animali da macello. Così come quello degli scarti del letame, dell’ammoniaca o del metano prodotti dagli allevamenti.

Detto ciò, un merito le va riconosciuto, ed è quello di aver sollevato la questione degli animali uccisi nella produzione alimenti di origine vegetale. Ciò che, invece, non è affatto chiaro (né, a mio parere, razionale) è perché, invece di risolvere un simile problema, non si debba rinunciare a mangiare alimenti di origine animale che provengono inevitabilmente da altri animali uccisi. Insomma, perché non escludere in primis i prodotti che coinvolgono direttamente l’addomesticamento, lo sfruttamento, la reclusione e l’uccisione di altri animali e poi lavorare anche per migliorare la produzione di alimenti di origine vegetale che hanno a che fare in maniera indiretta con la morte di altri animali?

Certo, chi vuole trovare in questa ricerca un facile spunto per difendere il consumo di carne dal punto di vista etico e ambientale è, chiaramente, libero di farlo. Ma sarà bene ricordare e ribadire che ben l’89% delle terre coltivate, come spiega Oltrelaspecie, viene impiegato per la nutrizione di circa 15 miliardi di capi di bestiame allevati dall’uomo, e quasi mai liberi di pascolare. E che, se tutti i terreni coltivabili della terra venissero usati esclusivamente per produrre alimenti vegetali, si potrebbe sfamare una popolazione 5 volte superiore a quella attuale, risolvendo idealmente persino il problema della fame nel mondo.

Senza la produzione di carne, inoltre, solo una piccola parte del terreno agricolo verrebbe utilizzato per le coltivazioni, lasciando la terra libera di rigenerarsi senza il bisogno di utilizzare fertilizzanti chimici. E, se uno più uno fa due, in questo modo diminuirebbero anche le morti “collaterali” descritte da Archer. Ecco perché la scelta di non consumare carne è l’unica in grado di fare la differenza. Per la salute, per gli animali, per il pianeta.

Roberta Ragni

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