Ne ha fatta di strada Rob Hopkins. Da un piccolo villaggio dell'Irlanda, il movimento di transizione da lui creato ormai nel lontano 2005 si è diffuso in tutti i cinque continenti e conta ormai circa 900 comunità nel mondo. Questo è l'ultimo dato diffuso, ma i numeri crescono in fretta e in maniera esponenziale. Di cosa stiamo parlando?
Transition Town. Ne ha fatta di strada Rob Hopkins. Da un piccolo villaggio dell’Irlanda, il movimento di transizione da lui creato ormai nel lontano 2005 si è diffuso in tutti i cinque continenti e conta ormai circa 900 comunità nel mondo. Questo è l’ultimo dato diffuso, ma i numeri crescono in fretta e in maniera esponenziale.
Di cosa stiamo parlando? Se non conoscete il movimento della transizione non preoccupatevi: si è mosso silenziosamente e non ha avuto guru della comunicazione a portarne in giro il verbo. Eppure ha già mosso centinaia di migliaia di persone: come? Producendo buone pratiche, generando modelli di vita comunitaria che possono essere adottati e replicati altrove e facendo rete. Sì perché quando si parla di “transizione” non si deve pensare ai pamphlet sulle teorie del consumo o sui grandi sistemi economici, bensì a un approccio integrato di matrice pragmatica che mira a ridurre il contributo di CO2 di una comunità e soprattutto a renderla sempre più indipendente dalle fonti fossili.
La premessa da cui tutto si muove è davanti ai nostri occhi. Il valore energetico dei combustibili fossili si sta lentamente abbassando. Il cosiddetto “picco del petrolio” cioè il punto oltre il quale le riserve avrebbero cominciato a diminuire, è stato superato e questo ci proietta inesorabilmente verso un futuro esaurimento delle fonti.
Considerati i fatti, Rob Hopkins non ci ha pensato due volte a porsi la fatidica domanda “Che fare?”. Da educatore nella piccola cittadina di Kinsale, decide di attivare una serie di iniziative che coinvolgono la comunità: dall’autocostruzione di un anfiteatro alla gestione degli orti urbani. Attorno agli ambiti più pervasivi del quotidiano (il cibo, l’energia, l’istruzione, l’economia, l’amministrazione, la salute…), attiva una serie di processi virtuosi basati sulla partecipazione e sulla riorganizzazione del sistema locale. Ne ricava una serie di regole che raccoglie in un libro “Il Manuale pratico della Transizione” (edito in Italia da Arianna Editrice), comincia a parlarne in giro e le comunità si moltiplicano.
A sei anni di distanza esce proprio in questi giorni “In transition 2.0” il film che riunisce le esperienze di transizione di una buona parte delle comunità presenti nel mondo. Realizzato attraverso un’iniziativa di crowdfunding, (e ordinabile via web), il film è un compendio di esperienze realizzate dalle comunità situate ovunque nel mondo: il filo che le tiene insieme non sono le azioni, per ognuno differenti, ma il comune approccio culturale che guida ciascuna. Costruttivo, positivo, partecipato, orgoglioso del proprio territorio.
Per l’Italia è presente Monteveglio (BO), l’unica cittadina che fino a questo momento è riuscita a entrare ufficialmente nel network delle città di transizione. Non che ci sia una selezione, ma non tutte le città che si presentano virtuose possono definirsi Città di Transizione. A Monteveglio è stata la stessa amministrazione a deliberare che le scelte politiche, economiche e sociali della cittadina sarebbero state espressione del Movimento di Transizione.
Perché “transitare” non è affare di pochi cittadini volenterosi o di regole imposte dall’alto. Al contrario, presuppone un coinvolgimento dal basso, compiuto intercettando i nodi della comunità e facendo sistema. Rob Hopkins, nel suo manuale, suggerisce l’applicazione di alcuni imprescindibili criteri per garantire il successo di una comunità verso la transizione. Si comincia con un piccolo gruppo di persone (max 5) che assume il ruolo di guida e di formazione. A loro il compito di tenere i rapporti con l’amministrazione, di fare incontri cadenzati con i cittadini e di organizzare iniziative che permettano loro di comprendere il percorso da intraprendere. Resilienza, permacultura, open space technology alcune delle parole che ricorrono nelle pratiche che caratterizzano la transizione. Meritano una spiegazione.
La resilienza rappresenta il meccanismo che garantisce a una comunità di ristabilire un suo equilibrio a fronte di uno shock come quello che si dovrà affrontare al diminuire delle fonti fossili per la produzione di energia; permacultura invece è una visione che sottende a un universo di pratiche dove importante è la progettazione in funzione del tempo e della durata, invece che in funzione dell’uso e consumo immediato e radicale. Infine open space technology nasconde, dietro questa terminologia altisonante, l’invito a usufruire di spazi e modalità di discussione che evitino il conflitto o la generazione di opposizioni ideologiche ma che, al contrario, consentano una convergenza tra le parti conducendo la comunità a una conclusione condivisa da tutti.
È futuro anteriore? NO è presente. Monteveglio rappresenta solo una delle comunità che attraverso la transizione sta riscoprendo una nuova natura sociale ed economica. Lo testimoniano i successi ottenuti in materia di raccolta differenziata, di sensibilizzazione alla spesa a km0, al consumo di acqua potabile, all’uso dei pannolini lavabili e delle stoviglie compostabili. E se il cittadino è sollecitato a cambiare i propri comportamenti quotidiani, non da meno si dimostra l’amministrazione. Che migliora l’efficienza energetica dei propri edifici investendo su una nuova scuola completamente autonoma e che si fa portavoce dei nuovi principi anche nei tavoli di lavoro con gli altri comuni limitrofi.
“È come avere a che fare con una piscina e pensare che a dispetto della sua forma e della profondità, essa possa ospitare un campo da golf e non esclusivamente acqua in cui nuotare.” Cristiano Bottone, responsabile dell’Associazione Monteveglio Citta’ di transizione ama definire il processo così: come un cambio di paradigma, capace di immaginare mondi diversi nell’ambito di strutture sociali che rimangono stabili.
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