La tragedia di Messina riporta alla mente tante altri disastri annunciati derivanti dal dissesto idrogeologico, ma la soluzione non può essere creare un'opera come il ponte che ne provocherebbe ancora di più
Eccoci qui. Nuovamente con gli occhi rossi e il magone in gola davanti alle immagini che scorrono in televisione e sui giornali, alla disperazione che ci arriva sotto forma di racconti e di dolore dei sopravvissuti alla tragedia di Messina, l’ennesimo disastro annunciato. Una frana, che ricorda così tanto quella che ha spazzato nel 1998 la zona di Sarno, una frana di cui, a Giampilieri, nella stessa area colpita oggi, si era già avuto un assaggio due anni fa. Un disastro “naturale” di quelli così “poco naturali” che ne richiama alla memoria altrettanti, tutti italiani.
Non si tratta di un terremoto. Lì, com’è stato per l’Aquila, la rabbia va a chi non ha saputo prevederlo – nonostante le tante scosse precedenti e gli allarmi di chi quella scossa se l’aspettava – a chi ha costruito senza seguire le regole e con materiali scadenti. Anche qui, nel disastro di Messina la rabbia si scaglia verso chi non ha saputo prevedere e chi ha costruito senza regole.
Ma è una rabbia diversa, maggiore, cruda e cocente. Perché, in fondo, ne siamo coscienti, i terremoti non si possono realmente anticipare. È la terra che decide di tremare, di spostarsi. La rabbia di oggi, invece, è molto più simile a quella di tanti anni fa, quella che io ho visto raccontata solo dai libri di testo e da una pellicola di un film. Quella che è avvenuta esattamente dall’altro capo d’Italia, nel Vajont. Due tragedie lontane nel tempo e nello spazio, ma accomunate da questa sensazione mista a indignazione comune. Perché in entrambi i casi, quello che tristemente affiora, ha l’aspetto di una vendetta archetipa: la vendetta della montagna sul cemento, della natura sull’uomo. Nel disastro del Vajont si è per forza voluto costruire una diga, nonostante fossero sotto gli occhi di tutti le eventuali conseguenze di una simile modifica sugli equilibri idrogeologici.
Foto: Salvo Restuccia
Anche costruire in maniera selvaggia, in aree dove ciò non è assolutamente consigliabile rappresenta un pericolo. Ma forse è più facile condonare che radere al suolo edifici abusivi. A quanto pare però, la natura è di tutt’altro parere. Un parere che si farà sempre più sentire, come un creditore che comincia ad esigere piano piano i propri debiti. Quei debiti che facciamo finta di non sapere di avere, che ci sembrano non nostri, al massimo che pagheranno i nostri figli, ma evidentemente, anche no. È solo quando poi succedono queste tragedie che per un attimo, ci ricordiamo che quei debiti forse andremo a pagarli prima di quanto pensiamo. Perché quelli non ce li condona nessuno. Anzi.
L’innalzamento della temperatura del mare, che appare sempre più evidente e non solo dagli allarmi e dalle immagini dal polo nord che vengono rilasciate dalle associazioni ambientaliste, è, secondo gli esperti, una delle cause delle tante piogge che si sono abbattute, quasi come cicloni tropicali, sull’Italia meridionale e con la quale dovremo cominciare a farci l’abitudine.
La riduzione delle emissioni di CO2 non è più uno slogan per aziende e leader politici, è una necessità vitale se non vogliamo che disastri sempre più gravi si abbattano su questa Terra sempre più martoriata. Conseguenze che non riguardano solo le lontane isole delle Maldive che presto scompariranno inghiottite dal mare, ma che si faranno sentire anche nel nostro quotidiano, che andranno a colpirci sempre più da vicino.
La cosa che, però, mi ha sconvolto più di tutte in questi giorni, è che invece di prendere atto di questo e dell’abusivismo edilizio, in Italia, oltre a chiedere sconti sulle quote di CO2 all’Europa, subito dopo la tragedia, a cosa si è gridato? Qual è diventata la necessità e la soluzione primaria? Costruire in fretta il ponte sullo stretto di Messina, un’opera talmente irrealizzabile che se ne parla da 40 anni e che, come emerso da più studi, provocherebbe dei cambiamenti idrogeologici le cui conseguenze non sono ancora perfettamente chiare. A partire dalle maree. E dal fatto che si tratta di una zona altamente sismica.
A me vengono in mente tante altre necessità imminenti di cui l’Italia e la Sicilia avrebbero bisogno. Tante soluzioni alternative da attuare con tutti quei miliardi di Euro che dovrebbero essere investiti (di cui molti già impiegati) per costruire il ponte sullo stretto. Abbiamo assistito alla vendetta della montagna deturpata, io non vorrei mai assistere a quella del mare violato.