Forse ricorderete Via col vento o altri film che raccontano lo stesso periodo storico, nei quali spesso compaiono schiavi neri chini nei campi. È proprio così, con l'immagine di lavoratori di colore impegnati a coltivare la terra, che si apre Angola for Life: Rehabilitation and Reform Inside the Louisiana State Penitentiary, un breve documentario che racconta la vita quotidiana nella più grande prigione di massima sicurezza degli Stati Uniti.
Forse ricorderete Via col vento o altri film che raccontano lo stesso periodo storico, nei quali spesso compaiono schiavi neri chini nei campi. È proprio così, con l’immagine di lavoratori di colore impegnati a coltivare la terra, che si apre Angola for Life: Rehabilitation and Reform Inside the Louisiana State Penitentiary, un breve documentario che racconta la vita quotidiana nella più grande prigione di massima sicurezza degli Stati Uniti.
Siamo nel profondo meridione del Paese e il penitenziario, noto come Angola e spesso definito la “Alcatraz del sud”, ospita uomini dal passato molto turbolento, per la stragrande maggioranza afroamericani, ormai dimenticati dalla società.
Con oltre 6.000 detenuti e circa 1.800 membri dello staff, la prigione, che si estende su un’area di 73 kmq, proprio dove un tempo sorgevano le distese di cotone coltivate dagli schiavi, comprende non solo dormitori e celle (comprese quelle riservate ai condannati a morte), ma anche strutture sanitarie, chiese, cimiteri, campi coltivati e piccole industrie manifatturiere.
È qui – nei campi e nelle fabbriche – che i detenuti sono obbligati a lavorare per diverse ore al giorno, se ritenuti idonei dallo staff medico della prigione. E, nel caso in cui rifiutino il lavoro, possono essere puniti anche con l’isolamento, con la revoca di eventuali benefici o con la limitazione delle visite dei familiari. Il lavoro prestato dai detenuti è a tempo pieno e, o non viene retribuito, o viene retribuito miseramente, con appena due centesimi l’ora.
La produzione agricola della prigione è molto ricca e comprende mais, cotone, fragole, cavoli, pomodori, grano e cipolle, che in parte servono a soddisfare il fabbisogno di detenuti e staff e in parte vengono venduti all’esterno. Le manifatture, invece, riparano gli strumenti agricoli e producono piatti, badge, segnali stradali, materassi, tessili e molto altro, tanto da rientrare nella supply chain di aziende esterne e persino di brand noti.
All’obbligo del lavoro, che è comune ad altre strutture penitenziarie degli Stati Uniti, si accompagnano la possibilità di ricevere un’istruzione (molti dei detenuti sono analfabeti o semianalfabeti) e la formazione religiosa: la religione, in particolare cristiana, ma senza discriminazioni – almeno a detta dei responsabili della prigione – nei confronti di chi professa un credo diverso, viene “utilizzata” per smorzare i conflitti e favorire una convivenza pacifica tra i detenuti.
Grazie a queste risorse, le aggressioni all’interno del penitenziario si sono ridotte dalle 1.346 del 1992 alle 343 del 2014: un numero ancora rilevante, ma che mostra come il fenomeno, per quanto difficile da debellare, sia in diminuzione.
È certamente positivo offrire ai detenuti, specie a quelli che scontano condanne molto lunghe o a vita, un’alternativa all’inedia e all’appiattimento umano e culturale, ma il punto sollevato da alcuni commentatori di fronte al documentario è un altro: è etico costringere qualcuno al lavoro? Una condanna, per quanto pesante, può davvero portare alla privazione di diritti basilari e ad una sorta di riduzione in schiavitù?
Perché, senza volerci girare intorno, costringere una persona a lavorare contro la propria volontà e ricorrendo alla minaccia è una forma di schiavizzazione: e mentre il lavoro, se scelto e svolto in un quadro normativo chiaro, con diritti e doveri precisi, può essere una risorsa preziosa nel cammino verso la riabilitazione, permettendo al detenuto di recuperare autostima e sentirsi parte del mondo, lo sfruttamento della manodopera non ha la stessa funzione e, soprattutto, dovrebbe essere considerato illegale.
E non ha alcun senso appellarsi al modello occhio-per-occhio (“non ti sei comportato da essere umano quando hai commesso il crimine, quindi non meriti di essere trattato come tale“), dato che la giustizia non dovrebbe mai confondersi con la vendetta.
Anche perché molti dei detenuti di Angola provengono da situazioni critiche – povertà estrema, analfabetismo, dipendenza da sostanze e problemi di salute mentale – su cui lo Stato avrebbe potuto e dovuto agire in via preventiva, attraverso programmi di welfare più attenti ai soggetti e alle fasce sociali a rischio. Se queste persone fossero stata adeguatamente aiutate, si sarebbero ugualmente macchiate di crimini? La domanda è legittima, anche se destinata a restare senza risposta.
Infine, non è da escludere ma, al contrario, è molto probabile, che alcuni detenuti siano stati condannati da innocenti, come purtroppo è accaduto in passato e come continua ad accadere, soprattutto per quanto riguarda la popolazione afroamericana.
In una situazione tanto difficile e complessa, si può davvero considerare l’obbligo al lavoro, nelle forme in cui viene applicato, un modello valido nel percorso verso la riabilitazione? La domanda, che tocca le nostre coscienze e il nostro senso civico, non può che restare aperta ed essere lasciata alla riflessione di ciascuno di noi.
Lisa Vagnozzi
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