In Ecuador, il Parco Nazionale dello Yasuní, i suoi abitanti e la sua ricca biodiversità sono salvi. I 100 milioni di dollari che erano stati imposti come meta da raggiungere entro dicembre per mantenere in vita il progetto ambientale di crowdfounding Yasuní ITT sono stati raggiunti. La raccolta fondi per far sì che il Governo del Paese latinoamericano rinunciasse ad uno sfruttamento miope ed egoista delle risorse naturali ha chiuso il 2011 a quota 116 milioni di dollari. Lo ha riferito Ivonne Baki, a capo dell’iniziativa, che ha reso noto su El Telégrafo che la campagna verrà proseguirà anche nel 2012 e nel 2013.
In Ecuador, il Parco Nazionale dello Yasuní, i suoi abitanti e la sua ricca biodiversità sono salvi. I 100 milioni di dollari che erano stati imposti come meta da raggiungere entro dicembre per mantenere in vita il progetto ambientale di crowdfounding Yasuní ITT sono stati raggiunti. La raccolta fondi per far sì che il Governo del Paese latinoamericano rinunciasse ad uno sfruttamento miope ed egoista delle risorse naturali ha chiuso il 2011 a quota 116 milioni di dollari. Lo ha riferito Ivonne Baki, a capo dell’iniziativa, che ha reso noto su El Telégrafo che la campagna verrà proseguirà anche nel 2012 e nel 2013.
L’iniziativa, avviata in collaborazione con le Nazioni Unite per lasciare sotto terra una riserva di petrolio nel sottosuolo della zona Itt (acronimo di Ishpingo-Tambococha-Tiputini), un’area ad alta biodiversità nel cuore dell’Amazzonia, nasce nel 2007, quando il presidente dell’Ecuador Rafael Correa annunciò, di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, di voler rinunciare allo sfruttamento di un grande giacimento di circa 846 milioni di barili di petrolio, equivalente al 20% delle riserve dell’intero Paese. E a dieci giorni del consumo mondiale di greggio.
Joan Martinez Alier, presidente della Società Internazionale di Economia Ecologica, spiega che “l’Ecuador propone di lasciare questo petrolio nel sottosuolo, preservando la biodiversità ineguagliabile di questa zona e rispettando i diritti dei popoli indigeni locali. Inoltre, lasciando il greggio sottoterra, si eviterebbe l’emissione in atmosfera di 410 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Un’iniziativa che viene dal Sud e che occorre sostenere”. Ma proventi dell’eventuale sfruttamento del giacimento avrebbero portato nelle casse dello Stato circa 7,2 miliardi di dollari in 13 anni. Eppure l’Ecuador scelse di impegnarsi a tutelare l’area in cambio del 50% del valore messo a disposizione dalla comunità internazionale. E i 116milioni di dollari raccolti sono sufficienti ad evitare lo sfruttamento della zona, la perdita della diversità culturale ancestrale dei popoli in isolamento volontario e l’emissione di 407milioni di tonnellate di Co2 l’anno (più di quanto emettono Paesi come Brasile e Francia.
Tra i Paesi che finora hanno contribuito alla raccolta di fondi, ci sono la Germania con 48 milioni di dollari in assistenza tecnica, Cile, Colombia, Georgia, Turchia (100.000 dollari ciascuno), Perù (300.000 dollari), Australia (500.000) e Spagna (1,4 milioni di dollari). Ma hanno donato ingenti somme di denaro anche ambientalisti e vip, da Leonardo di Caprio a Edward Norton, fino ad Al Gore, Rita Levi Montalcini e Gorbachov. E ancora Felipe González, Fernando Enrique Cardoso, Ricardo Lagos, Desmond Tutu, Rigoberta Menchú e Mohamed Yunus. Così come organismi multilaterali come la CAF (Cooperación Adina de Fomento) e la OAS (l’Organizzazione degli Stati Americani) e organizzazioni non governative come FEDEPARCHI, FOCSIV e ASUD. Tutti convinti che se il pianeta soffre e viene compromesso, ne risentiremo tutti.
E il Parco Nazionale Yasuní, che si trova a 320 chilometri ad est di Quito, non poteva non essere tutelato, visto che si tratta di una vera e propria riserva ecologica, con 980.000 ettari di bosco che ospitano più di 4.000 specie di piante, 173 specie di mammiferi e 610 specie di uccelli e 100 mila specie di insetti. In un solo ettaro dello Yasuní esistono tante specie di alberi e di arbusti quante sono quelle autoctone di tutta l’America del Nord. Per questa ragione lo Yasuní è stata classificata come la zona di maggior biodiversità del Pianeta e dichiarata Riserva Mondiale della Biosfera dall’UNESCO. Il Parco Nazionale Yasuní è anche il rifugio del popolo originario Huaorani e delle sue comunità in isolamento volontario, eredi legittimi della Riserva.
Il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, che sovrintenderà al fondo fiduciario, ha proposto che l’accordo serva da modello per la protezione degli ecosistemi di tutto il mondo. Il fondo che l’organismo amministrerà verrà esclusivamente impiegato per progetti di riduzione delle emissioni di Co2, di conservazione della biodiversità e della cultura indigena, di riforestazione, implementazione di fonti di energia rinnovabile e di un nuovo modello di sviluppo sostenibile. Ma, proprio a tal proposito, restano aperti numerosi interrogativi, soprattutto a proposito della composizione del consiglio che ha il compito di distribuire le risorse del fondo fiduciario per progetti di conservazione e riforestazione, sviluppo di energie sostenibili e programmi di formazione per le comunità indigene locali. Si teme che i rappresentanti delle comunità indigene rimangano esclusi dal processo decisionale. Oltre al fatto che, anche se il petrolio del Parco non verrà estratto, il greggio sarà comunque preso da qualche altra parte.
Come è successo in Bolivia, dove la popolazione indigena è riuscita a bloccare la costruzione di una strada che avrebbe tagliato a metà l’area amazzonica fra Villa Tunari e San Ignacio de Moxos, nel bel mezzo del Parque Nacional Isiboro Secure. Il presidente Evo Morales ha, a tutti gli effetti, fatto marcia indietro e ha dichiarato il territorio intoccabile. Ci sono voluti mesi, proteste e violenze per fargli cambiare idea, ma ciò non basta, visto che i pozzi di petrolio rimasti aperti continuano a inquinare le acque e le terre della riserva.
Nel frattempo, anche l’amministrazione brasiliana, con un presidente come Lula da sempre poco sensibile all’ecologia ed alle popolazioni locali, proprio come Correa, entra nel merito della vicenda. Parte dei benefici della costruzione della strada, infatti, sarebbero andati al Brasile, che chiede, allora, un progetto alternativo, “che metta insieme interessi politici, economici, ambientali e di sviluppo sociale”, spiega l’ambasciatore brasiliano a La Paz.
Alla luce di tutto ciò, “l’idea di una moratoria petrolifera internazionale –spiega A Sud sul proprio sito– che impedisca di perforare ed estrarre petrolio dalle zone ad alta biodiversità e dove si concentrano ecosistemi fragili e sopravvivono comunità native è un’alternativa reale per un cambio di rotta. Ancora una volta la proposta per un altro modello di “sviluppo” arriva dal Sud del Mondo”. Insomma, l’idea che ognuno di noi abbia un interesse personale nel salvare la foresta pluviale o altri ecosistemi si sta affermando sempre di più e l’Iniziativa Yasuní-ITT potrebbe essere, forse, la porta per assicurare un futuro più sostenibile per la Terra. Anche perché, in questo modo, il Paese ha la possibilità di sganciarsi da un certo tipo di economia estrattiva che di solito non avvantaggia la popolazione, ma solo una piccola minoranza, senza tuttavia pagarne, grazie al fondo, i danni economici. Ma colmare il debito ecologico e sociale che i paesi ricchi hanno nei confronti del Sud del mondo con il pagamento di somme di denaro sembra essere un po’ troppo riduttivo. Oltre a risultare piuttosto marginale rispetto ai problemi globali.
Roberta Ragni