Salva le apparenze, ma non il clima. L'accordo raggiunto a notte fonda a Copenhagen, dopo 12 giorni di trattative tra 193 paesi, è un compromesso al ribasso che non accontenta nessuno.
Salva le apparenze, ma non il clima. L’accordo raggiunto a notte fonda alla Conferenza di Copenhagen, dopo 12 giorni di trattative tra 193 paesi, è un compromesso al ribasso che non accontenta nessuno.
A partire da quello che ha rappresentato il simbolo di questa conferenza, Tuvalu, il piccolo Arcipelago nel Pacifico che stando così le cose rischia davvero di affondare sotto l’effetto dei cambiamenti climatici. Ma anche volendo chiudere un occhio sull’intervento accorato del primo ministro Apisai Ielemia che ha strappato un lungo applauso e commosso ancora una volta la platea dei “grandi del mondo” , precisando che il suo piccolo stato “non è in vendita”, delusa anche l’Europa e infuriate le associazioni.
Si, perché nell’intesa raggiunta nella maratona notturna, non si fa minimamente accenno agli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, né a breve, né a lungo termine. In pratica, anche se ancora non è stato redatto un documento ufficiale, si è affermata la bozza preparata giovedì notte per superare lo stallo in cui era piombato il vertice, avallata alle 22:00 di ieri sera dal vertice straordinario tenuto tra USA, India, Cina e Sudafrica.
Di certo, dunque, l’accordo stabilisce solo la soglia dei 2 gradi come aumento massimo delle temperature e i fondi che verranno stanziati per incrementare le tecnologie “verdi” nei Paesi in via di Sviluppo : 30 miliardi di dollari tra il 2010-2012 fino ad arrivare a 100 miliardi di dollari entro il 2020. Calcolando che la prima bozza messa sul piatto dalla Danimarca all’inizio della Conferenza parlava di 10 miliardi, non si può negare il passo avanti anche se resta aperto il punto cruciale: gli obiettivi di riduzione di CO2 al 2020 comparati ai livelli delle emissioni del 1990 e del 2005, su questo fronte tutto rimandato.
Ma andiamo con ordine. Ieri mattina il discorso con cui Obama, giunto nella capitale danese con il peso degli occhi di tutto il mondo puntati addosso, aveva subito fatto intendere che dagli USA non sarebbero arrivati nuovi impegni e neanche il tanto atteso miracolo che molti speravano con l’arrivo del neo premio Nobel per la Pace. Obama, prima di incontrare il premier cinese, nonostante abbia precisato che “l’America è pronta a prendersi le sue responsabilità in quanto leader” e che “siamo qui non per parlare, ma per agire” si è limitato a confermare la riduzione di C02 del 17% entro il 2020 rispetto al 2005, così come previsto dalla legislazione pendente davanti al Congresso.
E quando il Presidente americano nel suo discorso in cui ha ribadito l’importanza della lotta ai cambiamenti climatici definendoli non fantascienza, ma “pericolo reale”, ha ammesso che è necessario “accettare un accordo imperfetto“, è stato chiaro a tutta la platea e a tutto il mondo l’epilogo. Un epilogo che è arrivato in serata, a seguito dell’incontro fuori programma con il premier cinese Wen Jiabao, il premier indiano Manmohan Singh, il presidente del Brasile Inacio Lula da Silva e il presidente sudafricano Jacob Zuma.
Così quell’accordo con Cina, India, Brasile e Sudafrica è diventato “storico” anche se è lo stesso Obama a definirlo “non è sufficiente per combattere il cambiamento climatico, ma si tratta di un importante primo passo. Nessuna nazione è interamente soddisfatta con tutte le parti dell’accordo. Ma questo è un significativo e storico passo avanti, è una base sulla quale costruire ulteriori progressi“.
Dal presidente del “yes we can”, dunque, in concreto, solo l’impegno a contribuire con 3,6 miliardi al fondo previsto per i Paesi in via di sviluppo e una vaga promessa che gli Stati Uniti continueranno sulla strada della riduzione delle emissioni a prescindere del risultato di Copenaghen.
La prima a dover “ingoiare il rospo” è proprio l’Unione Europea che tramite un portavoce fa sapere che l’accordo raggiunto “È molto meno di quanto speravamo, ma un accordo è meglio di nessun accordo e mantiene vive le nostre speranze“. Ed effettivamente l’Europa si era battuta durante tutto il vertice mettendo anche sul piatto della bilancia un aumento degli impegni a ridurre le emissioni entro il 2020 dal 20% al 30%. Anche il Presidente francese Sarkozy che dopo il discorso di Obama aveva ribadito la volontà di non accontentarsi di un’intesa “mediocre”, alla fine si è dovuto arrendere all’evidenza anche se ci ha tenuto a precisare che “La mancanza di numeri sui gas serra è un fallimento. Questo vertice ha dimostrato il limiti del sistema Onu, pari a quelli di una bolla di sapone” sottolineando il ruolo negativo giocato dalla Cina con il suo rifiuto netto “ad accettare l’idea di un organismo di controllo” sugli impegni di riduzione e sull’utilizzo dei fondi. Ed è proprio la Cina è forse l’unico Paese veramente soddisfatto dell’accordo raggiunto, giudicato “positivo”.
Per quanto riguarda l‘Italia, il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo ha assicurato di aver lavorato assieme “ai partner europei”, ma non è della stessa opinione Greenpeace che ha denunciato ieri proprio le posizioni assunte dal nostro paese nel contrastare la decisione europea di innalzamento degli impegni unilaterali al 30%.:”Regno Unito, Germania e Francia hanno chiesto il miglioramento dell’obiettivo, ma si sono scontrate contro il muro dell’Italia“.
Ed è proprio dalle associazioni che si grida al fallimento: “Ma quale accordo storico: è un fiasco totale“, accusa Greenpeace: “Non c’è un solo punto in cui si parla di obbligatorietà degli accordi. Il protocollo di Kyoto era insufficiente, ma almeno era vincolante“.
In effetti l’accordo raggiunto non ha valore politico, ma come spiega bene l’ambasciatore del Brasile Sergio Serra “Ci siamo messi d’accordo solo sul fatto di riunirci ancora“.
E infatti, tutto rimandato al prossimo anno: una nuova conferenza si terrà tra sei mesi per preparare la Conferenza sul clima in Messico alla fine del 2010. Rinviata al primo febbraio la decisione cruciale sulla riduzione delle emissioni di CO2 entro il 2020. Ma intanto il clima, come dimostrato anche dal documento scientifico presentato ieri, non rimane ad aspettare.
Foto: Scanpix/New York Time