Si può distruggere impunemente una porzione di foresta in Namibia per sfruttare i giacimenti di uranio presenti nel sottosuolo boschivo? Oppure sventrare alcune montagne della Transilvania per dare vita alla miniera d'oro a cielo aperto più grande d' Europa? Secondo la teoria del biodiversity offsetting, tutto ciò è non solo ipoteticamente possibile, ma perfettamente ammissibile e assolutamente legittimo, a condizione di “compensare” il danno ambientale ricreando un ecosistema con le stesse caratteristiche e la stessa diversità biologica in un altro punto del globo
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Si può distruggere impunemente una porzione di foresta in Namibia per sfruttare i giacimenti di uranio presenti nel sottosuolo boschivo? Oppure sventrare alcune montagne della Transilvania per dare vita alla miniera d’oro a cielo aperto più grande d’ Europa? Secondo la teoria del biodiversity offsetting, tutto ciò è non solo ipoteticamente possibile, ma perfettamente ammissibile e assolutamente legittimo, a condizione di “compensare” il danno ambientale ricreando un ecosistema con le stesse caratteristiche e la stessa diversità biologica in un altro punto del globo. Proprio così. Avete letto bene.
Il biodiversity offsetting o compensazione della biodiversità è una strategia formulata con lo scopo di minimizzare l’impatto ambientale dell’attività umana, riducendo i rischi per l’ecosistema coinvolto. Concepita come strumento al servizio della green economy, è una pratica diffusa già da qualche anno, che sta prendendo sempre più piede negli attuali programmi di sviluppo economico. Gode del sostegno delle principali istituzioni internazionali, Unione Europea e Banca Mondiale in testa, che oltre a sdoganarla a livello concettuale, ne hanno fornito una legittimazione concreta sul piano normativo.
Biodiversity offsetting, in cosa consiste esattamente?
Si tratta di un meccanismo attraverso il quale la distruzione della biodiversità su una porzione di territorio può essere tollerata se viene ricreato un ecosistema con analoghe caratteristiche, nello stesso Paese destinatario dell’intervento o in un’altra parte del pianeta. In pratica, attraverso questa prassi una multinazionale può saccheggiare e devastare un determinato territorio purché riesca a ricreare un habitat analogo dal punto di vista della biodiversità.
Questa fattispecie configura un tipo di compensazione cosiddetto “alla pari”, (like to like) : ogni ettaro di foresta diboscato sarà “compensato” da un altro ettaro di foresta che verrà ricreato o tutelato altrove. Oppure, con una forzatura ancora più evidente, la distruzione dell’ecosistema può essere consentita purché il soggetto in questione riesca a sostenere concretamente la tutela ambientale, finanziando azioni per la salvaguardia della biodiversità in un’altra zona dello stesso Paese danneggiato. Ad esempio, qualora vi siano specie animali protette che devono essere spostate, la società multinazionale può impegnarsi finanziariamente per tutelarle altrove, creando nuove aree protette o sfruttando quelle già esistenti. In questo caso, l’offset è costituito da una contropartita in denaro al fine di preservare la biodiversità in un’altra zona, spesso distante centinaia di chilometri da quella danneggiata.
Biodiversity offsetting: una soluzione assurda…
Non c’è bisogno di essere degli esperti in materia per rendersi conto immediatamente di quanto sia assurda e pericolosa questa teoria. Assurda, perché un ecosistema ambientale è il risultato di milioni di anni di ì complesse e peculiari interazioni tra il clima, il territorio, la flora e la fauna di quel determinato luogo.
…e pericolosa
Una volta distrutto, non esiste alcuna possibilità di compensazione. Come se la distruzione di una foresta millenaria in una regione tropicale potesse essere “compensata” semplicemente piantando alcuni alberi da un’altra parte. Pericolosa, perché di fatto apre la strada a una vera e propria finanziarizzazione della natura, basata sul presupposto che il patrimonio naturale possa essere monetizzato. È evidente che applicando le leggi del mercato all’ecosistema si creano distorsioni insanabili, perché si mettono sullo stesso piano entità tra loro incomparabili.
Si tenta di estendere categorie economiche alle risorse naturali, ma la natura non ha un prezzo. Ha un valore inestimabile, ma non un prezzo quantificabile. Inoltre, il biodiversity offsetting è pericoloso anche sotto un altro profilo, poiché di fatto rappresenta una privatizzazione del diritto. In pratica, si legalizza quello che normalmente costituirebbe un reato ambientale, trasformandolo in una pratica lecita soltanto per coloro che possono permettersi di pagare gli offsets.
Va detto che non è ammesso l’uso indiscriminato del biodiversity offsetting, ma al contrario il ricorso alla compensazione è regolamentato attraverso schemi restrittivi e specifiche limitazioni.
Nell’ambito dell’Ue, ad esempio, la compensazione si inserisce all’interno della cosiddetta gerarchia della riduzione dell’impatto ambientale, nel senso che può essere esperita solo come ultima possibilità, dopo aver tentato altre strade. Il primo obiettivo dovrebbe sempre essere quello di evitare o prevenire impatti negativi sull’ambiente. Qualora questo risulti impossibile, il secondo passaggio dovrebbe essere finalizzato alla minimizzazione dei danni. La compensazione dovrebbe rappresentare soltanto la scelta residuale, l’ultima alternativa possibile.
Con queste specifiche limitazioni, il biodiversity offsetting rappresenta comunque uno degli assi portanti della strategia comunitaria per fermare la perdita della biodiversità entro il 2020. Secondo i legislatori europei, la compensazione della biodiversità “consiste in interventi di conservazione finalizzati a compensare i danni residuali ed inevitabili arrecati alla biodiversità dai progetti di sviluppo.” L’obiettivo da raggiungere entro il 2020 è quello di non avere nessuna perdita netta in termini di biodiversità (no net loss).
Biodiversity offsetting: le ripercussioni in tutto il mondo
Al di là di quanto avviene a livello europeo, risulta abbastanza intuitivo che il biodiversity offsetting è destinato ad avere ripercussioni negative soprattutto sui Paesi del Sud del mondo, le cui risorse possono essere impunemente saccheggiate in nome di una strategia che, lungi dal tutelare l’ambiente, di fatto ne autorizza la devastazione.
Ad esempio non è concepibile distruggere la foresta pluviale ghanese di Atiwa, vero e proprio mosaico di specie rare e minacciate, per sfruttare la bauxite presente nel sottosuolo, nella convinzione di “compensare” la perdita di biodiversità attraverso il sostegno economico alla tutela ambientale in un’altra zona del Ghana o ricreando altrove una foresta pluviale con le stesse caratteristiche. Questa foresta è uno scrigno prezioso che pullula di vita: qui si trovano tantissime specie animali, tra cui alcuni primati e anfibi a rischio di estinzione e oltre 650 tipi di varietà di piante vascolari. Ad Atiwa vivono oltre due terzi delle specie di farfalle conosciute nel mondo. La foresta fornisce acqua dolce, cibo, riparo e materiale per indumenti a circa cinque milioni di persone e rappresenta un baluardo naturale contro inondazioni e siccità.
Tutti i danni del biodiversity offsetting
Oltre ai danni ambientali, questa nuova forma di colonialismo purtroppo provoca danni inestimabili anche per le popolazioni. Per gli autoctoni il biodiversity offsetting si traduce sistematicamente in una perdita netta, senza alcun tipo di compensazione. Infatti le comunità locali spesso subiscono la perdita del proprio habitat naturale, cui si aggiunge l’impossibilità di poter godere delle risorse del fantomatico ecosistema che le grandi multinazionali si sono impegnate a ricreare o tutelare. Non si può pensare di separare una popolazione dal suo territorio. Qualsiasi tentativo in tal senso è arbitrario e prevaricatore. Le popolazioni indigene conoscono bene il proprio habitat e convivono da sempre in equilibrio armonico col loro territorio.
Dall’ambiente traggono le risorse per il proprio sostentamento, ma la loro interazione con l’ecosistema è necessariamente virtuosa, rispettosa della natura e orientata alla tutela e conservazione del territorio. Non fosse altro che per un fine meramente egoistico: è nell’interesse degli abitanti preservare l’ambiente e le risorse naturali, perché ne va della loro stessa sopravvivenza. Con il biodiversity offsetting, le comunità locali vengono private della loro casa e delle risorse che spesso costituiscono la loro principale fonte di sostentamento, senza ricevere nulla in cambio. Col paradosso che coloro che distruggono e devastano ambienti unici e non riproducibili riescono, pagando determinati offsets economici, a lavarsi la coscienza, facendosi passare per amici della natura e tutori della biodiversità. Oltre il danno, la beffa.
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Sostenuto dalle grandi istituzioni internazionali, dalle corporazioni finanziarie, ma purtroppo spesso anche da ong sensibili alle tematiche ambientaliste, il biodiversity offsetting rappresenta una gigantesca mistificazione della realtà, una sofisticata operazione di greenwashing globale al servizio di un modello di sviluppo destinato a provocare danni irreversibili all’ecosistema ambientale e alle popolazioni coinvolte.
Si tenta di giustificare e legittimare attività molto invasive per i territori quali l’estrazione mineraria, l’agricoltura industriale o la costruzione di grandi infrastrutture, semplicemente perché non si è in grado di imporre né tantomeno di proporre un modello alternativo di sviluppo. Così, sventrare una montagna per costruire un tunnel o disboscare un’intera foresta tropicale per avviare prospezioni minerarie diventano attività lecite, anche laddove compromettono delicati equilibri naturali, frutto di un’evoluzione plurimillenaria.
Tutto viene giustificato alla luce della cosiddetta “compensazione”, dell’offset. Come se il nostro pianeta fosse un sistema a compartimenti stagni, in cui poter togliere o aggiungere dei tasselli a proprio piacimento: togliamo conifere secolari da una regione e ripiantiamo altri alberi in un’altra, spostiamo rarissime specie endogene dal loro habitat naturale in un altro luogo con un clima simile. Tanto, gli alberi cresceranno, gli animali si adatteranno.
Ma la realtà è ben diversa, e il nostro pianeta somiglia piuttosto a un complesso organico di vasi comunicanti, nel quale sottraendo o aggiungendo risorse in un punto specifico si provocano inevitabili ricadute a catena sull’intero sistema. Che ci piaccia o no, sulla terra vige una regola tacita ma inesorabile: il meccanismo azione-reazione è governato da una sorta di effetto domino in base al quale qualsiasi azione invasiva compiuta in un qualsiasi punto del pianeta innescherà una serie di conseguenze a cascata per tutti, nessuno escluso. Magari non nell’immediato. Ma sicuramente nel lungo periodo l’azione distruttrice dell’uomo in una regione specifica avrà ripercussioni su tutto il pianeta e per l’umanità intera. E non c’è compensazione che tenga.
Angela Petrella