Così i militari di Bolsonaro hanno spianato la strada alle multinazionali, invece di proteggere Amazzonia e indigeni

Conclusasi l'operazione militare "Brasile Verde", l'Amazzonia è deforestata e le sue popolazioni indigene si sono estinte o impoverite.

Il 30 aprile, dopo quasi due anni, si chiuderà ufficialmente l’Operação Verde Brasil (“Operazione Brasile Verde”), un’operazione militare lanciata nell’agosto 2019 dal governo federale del Brasile in risposta ai vasti incendi che in quel tragico anno avevano travolto e devastato l’Amazzonia brasiliana, la più grande foresta pluviale del mondo, il nostro “polmone verde”. La durata dell’operazione, estesa nel maggio 2020, era stata prorogata per una seconda volta fino all’inizio di febbraio 2021, ribattezzandola Operação Verde Brasil 2.

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L’intervento, per il quale sono stati stanziati 71 milioni di dollari di finanziamento, non ha tuttavia portato a risultati significativi; anzi, in molti casi, è stato controproducente. Nel complesso, la regione dell’Amazzonia brasiliana è ancora molto vulnerabile dal punto di vista sia ambientale che economico-sociale.

Tra l’altro, le agenzie ambientali federali hanno dovuto soccombere di fronte alle autorità militari nel corso dell’intera campagna voluta e promossa dal presidente del Brasile, Jair Bolsonaro. L’esercito, però, si è presto dimostrato inadatto e incompetente rispetto al ruolo ad esso assegnato; infatti, non aveva né la mentalità, né la struttura organizzativa, né gli strumenti indispensabili per rintracciare e fermare i responsabili della deforestazione selvaggia.

incendi amazzonia

©Greenpeace

Un annunciato fallimento

Hamilton Mourão, vicepresidente del Brasile ed ex generale dell’esercito posto alla presidenza del Conselho Nacional da Amazônia Legal, alla scadenza della seconda proroga ha dichiarato che il 70% della deforestazione ovvero dei crimini ambientali verificatisi in Amazzonia e monitorati dalle forze armate nel corso della suddetta operazione si concentrano in 11 comuni, identificati come aree di intervento prioritarie.

In realtà, quei dati non sono affatto una novità: le autorità statali ne erano da tempo al corrente —sebbene tentassero di ignorarli — perché quelle informazioni erano già state rese pubbliche un mese prima della decisione della proroga del maggio 2020. L’elenco delle aree prioritarie a livello di protezione si trovava infatti nei registri di una causa legale intentata nell’aprile 2020 dal Federal Prosecution Service (MPF).

L’elenco stilato dai pubblici ministeri identificava aree quali il comune di São Félix do Xingu, nello stato del Pará, caratterizzato dal più alto livello di emissioni di gas serra mai registrato nell’intero Brasile, proprio a causa della deforestazione. Altre aree prioritarie includevano i comuni dello stato dell’Amazzonia meridionale e le aree limitrofe appartenenti agli stati del Mato Grosso e della Rondônia.

Brasile leader mondiale nella perdita di foreste primarie

Come osservato da Greenpeace, oggi i tassi di deforestazione restano altissimi, i più alti mai registrati negli ultimi 12 anni. Si pensi che la superficie distrutta è equivalente a sette volte le dimensioni di Londra.

La conferma arriva anche dal recentissimo report del World Resource Institute, che tramite la piattaforma Global Forest Watch monitora lo stato della deforestazione a livello globale.

Il Brasile è ancora una volta in cima alla lista per la perdita annuale di foresta primaria, con una perdita totale di 1,7 milioni di ettari nel 2020, più di tre volte il secondo Paese della classifica in negativo. La perdita di foreste primarie in Brasile è aumentata del 25% nel 2020 rispetto all’anno precedente.

 

E le multinazionali ringraziano

Ad aggravare il quadro, un enorme mercato nero delle terre pubbliche, che include le aree acquistate e vendute illegalmente all’interno dei territori indigeni, continua a diffondersi e a prosperare.

Nel frattempo, le agenzie ambientali, che appaiono assai indebolite durante l’amministrazione Bolsonaro, stanno timidamente riacquisendo alcune funzioni operative e i militari annunciano piani di sviluppo economico (o meglio, di intensivo sfruttamento) per l’Amazzonia. Una retorica del “progresso” e della “modernità” che avvantaggia le multinazionali e le grandi aziende, ma condanna all’endemica povertà i popoli della foresta, poiché annulla le conoscenze ecologiche, le culture e gli stili di vita tradizionali, minando l’esistenza stessa delle comunità indigene locali.

Gli esperti del settore, preoccupati per l’evidente sperpero di denaro pubblico per finanziare un’operazione per molti aspetti fallimentare, non riescono a comprendere quale tipo di protezione si intenda garantire alla foresta amazzonica brasiliana nel prossimo futuro, dopo quasi due anni di sottomissione della popolazione locale alle autorità militari.

Deforestazione ed estinzione degli indigeni

Per esempio, durante il periodo di controllo e sorveglianza militare, un gruppo indigeno, i Juma di Rondônia, si è completamente estinto a causa del COVID-19. In quel periodo, inoltre, sono state avviate le indagini dei PM brasiliani sul presunto uso di un aereo militare per trasportare un gruppo di minatori illegali, invitati ad una serie di riunioni tenutesi nel palazzo presidenziale nel novembre 2020.

Marcela Vecchione, scienziata della politica presso il Núcleo de Altos Estudos Amazônicos dell’Universidade Federal do Pará (UFPA), ritiene che l’operazione militare sia stata un vero fallimento sociale e ambientale. A suo parere, i conflitti esplodono ogni volta che viene a crearsi uno stato di eccezione permanente, in questo caso dominato dai militari.

Come da lei osservato, sin dall’inizio, le operazioni militari si sono concentrate su aree già delimitate o assegnate a gruppi tradizionali, tra cui i popoli indigeni, i quilombolas (discendenti degli schiavi africani) e gli abitanti del fiume noti come il tradizionale popolo dei ribeirinhos. Una scelta discriminatoria che Vecchione considera di per sé un grave errore.

Inoltre, l’operazione risulta essere stata inefficace soprattutto perché quando gli interventi si limitano solo alle aree “ufficiali”, le aree informali contese diventano sempre più fragili e, di conseguenza, sono maggiormente esposte a situazioni di povertà o ad episodi di conflittualità sociale.

Agenzie ambientali esautorate e militarizzate

Le agenzie ambientali, intanto, sono a corto di finanziamenti pubblici e non riescono a svolgere concretamente il proprio lavoro. L’agenzia federale per la protezione ambientale (IBAMA) — soppiantata dalle forze militari con il lancio dell’operazione Brasile Verde — e l’Istituto Chico Mendes per la conservazione della biodiversità (ICMBio), che rappresenta il braccio amministrativo del Ministero dell’Ambiente, sono due istituti che stanno ancora soffrendo a causa di gravi carenze di budget.

Suely Araújo, ex presidente dell’IBAMA e attuale consigliere per l’Osservatorio sul clima, ha dichiarato che la spesa sostenuta dall’agenzia per svolgere azioni di contrasto in tutto il paese non ha nemmeno raggiunto gli 80 milioni di real brasiliani [12 milioni di euro] nel 2020.

La coalizione di Araújo chiede pertanto al governo brasiliano di riservare maggiori finanziamenti alle agenzie ambientali. Secondo l’Osservatorio sul clima, IBAMA, ICMBio e il Ministero dell’Ambiente lavorano avendo a disposizione i budget più bassi dell’ultimo ventennio.

Oltre alla mancanza di fondi, le agenzie hanno assistito ad un’ondata di nomine di ufficiali militari (al novembre 2020, almeno 22 soggetti provenienti da Aeronautica militare, Esercito e Marina) in posizioni dirigenziali ovvero in posizioni chiave delle due agenzie e del Ministero, volte ad esautorare gli ispettori e i professionisti esperti.

Sempre secondo Araújo, affidare tali incarichi dirigenziali al personale militare invece che a quello civile aumenterebbe sia la sfiducia interna, sia il rischio di ritorsioni contro i dipendenti pubblici di queste agenzie.

In sintesi, se non si inverte la tendenza, sono a rischio lo stato di diritto, la democrazia, l’ambiente e il futuro stesso dei popoli dell’Amazzonia brasiliana, senza i cui preziosi “doni” rischiamo di precipitare in una sempre più grave crisi climatica mondiale.

Fonti: Greenpeace, Money Times/Mongabay

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