Ormai è possibile trovare il salmone ovunque, anche a causa della "sushi mania" che impazza anche in Italia. Ma cosa succede davvero negli allevamenti intensivi di salmone?
Se fino a qualche anno fa il salmone era un pesce che veniva consumato raramente in Italia, oggi lo si può trovare praticamente ovunque e a prezzi molto più accessibili: al supermercato, nei ristoranti e persino negli omogeneizzati per neonati e nelle scatolette di cibo per gatti.
La causa principale di questo boom di importazioni di salmone è da attribuire a quella che potremmo definire la “sushi mania” che si è diffusa negli ultimi anni anche in Italia. Ma cosa c’è dietro questo business? L’industria del salmone sta provocando effetti devastanti sugli ecosistemi marini e la crescente domanda legata a questo prodotto sta peggiorando la situazione.
L’impatto ambientale degli allevamenti di salmone
Negli allevamenti intensivi dei Paesi del Nord Europa, tra cui la Scozia e la Norvegia, i salmoni vengono ammassati in gabbie e recenti che possono contenere anche oltre 200.000 esemplari. Qui sono costretti a “vivere” in cattività, con limitate possibilità di movimento. Molto spesso questi pesci si ammalano e muoiono nel giro di qualche mese. E per cercare di farli vivere più a lungo possibile, gli allevatori ricorrono frequentemente a medicinali, tra cui antibiotici e altri farmaci per combattere combattere batteri, virus e funghi.
Dal 2002 al 2019 la mortalità di questi pesci negli allevamenti scozzesi è più che quadruplicata, passando dal 3% al 13,5%. Un quinto di questi decessi è legato ad infestazioni da pidocchi di mare, ectoparassiti che si nutrono dei pesci ancora vivi. La Scozia è uno dei maggiori produttori di salmoni allevati al mondo, con un’industria che vale circa 2 miliardi di sterline all’anno. Ma i soli costi in termini ambientali ammonterebbero a in 1,4 miliardi di sterline dal 2013 al 2019, come chiarito da Just Economics, ha approfondito la questione nel report intitolato “Dead Loss “.
Alla pubblicazione del rapporto “Dead Loss”, che ha preso di mira soprattutto gli allevamenti canadesi, è seguita la dura replica della BC Salmon Farmers Association (BCSFA), che ha criticato il documento, ritenuto fuorviante e con dati contestualizzati male.
“È un peccato che i critici di questo settore abbiano deciso di pubblicare un altro rapporto malinformato che non cerca di fornire soluzioni o creare un percorso condiviso, ma invece si affida e perpetua scienza e disinformazione obsolete” – ha detto un portavoce dell’associazione canadese. – “In realtà, gli allevatori di salmone di BC forniscono in modo sostenibile più di 6,5 milioni di pasti ogni settimana. A livello globale, l’allevamento del salmone produce 17,5 miliardi di pasti su base annua. In ogni caso, siamo uno dei settori proteici d’allevamento più sostenibili al mondo: impronta di carbonio, uso dell’acqua e conversione dei mangimi inclusi “, ha affermato.
Salmoni sfruttati anche per produrre mangimi per altri pesci
Ma i salmoni allevati in condizioni discutibili non sono destinati esclusivamente alla produzione di sushi, tranci di pesce e omogeneizzati. Annualmente, infatti, circa 18 milioni di tonnellate di pesce selvatico vengono utilizzate per produrre farina e olio di pesce, di cui circa il 70% viene usato poi usato negli allevamenti ittici.
Ciò avviene anche con altre specie, tra cui le sardine dell’Africa occidentale, che ormai sono in pericolo in quanto vengono pescate principalmente per produrre mangimi. In realtà, le alternative all’uso di olio di pesce selvatico esistono. Una potrebbe essere, ad esempio, l’olio di alga, anch’esso fonte di Omega 3 per i pesci di allevamento. Ma i grandi allevatori di salmone di Paesi come la Norvegia e la Scozia non sembrano intenzionati ad abbracciare una produzione più sostenibile.
Infine, un altro elemento da considerare è quello legato alle etichettature sui prodotti ittici, spesso poco chiare. Come sottolinea Natasha Hurley, campaign manager presso la Changing Markets Foundation, in molti casi i consumatori non sono consapevoli di ciò che stanno acquistando perché in alcuni Stati, come il Regno Unito, sulle etichette non vengono riportate in maniera chiare le informazioni relative all’allevamento d’origine del salmone.
Insomma, la prossima volta che qualcuno ci proporrà di andare a mangiare sushi o di fare una scorpacciata di salmone, sarebbe il caso di pensare a tutto quello che c’è dietro la sua produzione e di ricordarsi che di sostenibile non c’è proprio un bel niente.
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Fonte: The Guardian/Just Economics
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