Si trovano ad ogni angolo e nelle principali città italiane, sono aperti h24 e vendono frutta di ogni tipo, sono i market gestiti da bengalesi, indiani e non solo. La loro merce, i costi e la loro attività viene analizzata in un rapporto titolo “Il (povero) diavolo nascosto nel dettaglio” di due giornalisti indipendenti, Maria Panariello e Maurizio Franco.
Indice
Si trovano ad ogni angolo e nelle principali città italiane, sono aperti h24 e vendono frutta di ogni tipo, sono i market gestiti da bengalesi, indiani e non solo. La loro merce, i costi e la loro attività viene analizzata in un rapporto titolo “Il (povero) diavolo nascosto nel dettaglio” di due giornalisti indipendenti, Maria Panariello e Maurizio Franco.
Un rapporto condotto per conto di Terra! onlus che analizza il perché, negli ultimi anni, si è assistito a un vero e proprio boom a Roma, e non solo, di negozi di ortofrutta gestiti da stranieri soprattutto asiatici.
Già nel 2016 erano 1432, nel 2017, 1622. Numeri che vanno a discapito di botteghe di quartiere e su cui aleggia il dubbio di un controllo criminale e quello del racket. C’è chi li ha ribattezzati banglamarket, chi ormai li considera un punto di riferimento perché è possibile trovare tutto a qualsiasi ora grazie al Salva Italia di Monti che permette di allungare l’orario di lavoro delle attività commerciali.
Secondo il rapporto, nel 2017, 33 frutterie romane hanno chiuso, ma sono state sostituite da quelle gestite da stranieri che guadagnano circa 1500 euro, una cifra modesta per un italiano. Per questo motivo i negozi diventano la prima forma di investimento delle comunità straniere, tra cui svettano gli egiziani, seguiti dai bengalesi e i rumeni.
“Negli ultimi due decenni Roma, come molte altre importanti città italiane, ha visto esplodere il numero dei piccoli esercizi commerciali gestiti da egiziani e bengalesi. Un fenomeno legato ai mutamenti socioeconomici che hanno interessato la nostra penisola e gran parte del mondo occidentale, provocando importanti trasformazioni nel settore del commercio agroalimentare al dettaglio”, scrivono i due autori nel rapporto.
L’ombra del racket e dell’usura
La vendita al dettaglio, oltre a costituire una forma di reddito sostanziale, è diventata anche un collante sociale per molti di questi gruppi, che faticano a trovare altri luoghi di aggregazione con persone provenienti dai loro stessi Paesi di origine. Talvolta l’ombra del racket e dell’usura si allunga su queste attività.
Come confermato dall’Osservatorio per la legalità e la sicurezza della Regione Lazio, sono state formulate molte e diverse ipotesi sull’infiltrazione criminale negli affari degli stranieri, ma non è mai emerso nulla di certo. Tuttavia, quel che ci è sembrato più interessante indagare con questa ricerca, che integra e approfondisce alcuni aspetti sfiorati dal rapporto “Magna Roma”, è il legame fra cambio delle abitudini alimentari, precarizzazione del lavoro e liberalizzazione del commercio.
Tutte queste dinamiche, unite ai flussi migratori, sono all’origine del proliferare di negozi al dettaglio gestiti da stranieri, e contribuiscono ad incidere sulla qualità del cibo che portiamo in tavola ogni giorno.
Come funziona la filiera
Secondo il rapporto a Roma il 42% delle nuove imprese commerciali è rappresentato dai banglamarket che in molti casi fungono sia da sede di lavoro che da abitazione che da centro di aggregazione della comunità.
Andiamo ai numeri. Servono circa 15mila euro per avviare un negozio, mentre il 20/24% del totale delle rimesse viene spedito alle famiglie che sono rimaste nel paese d’origine. Da dove arrivano i prodotti? Su Roma, il 90% del fresco da Guidonia e il 10% da Fondi, vengono organizzati degli acquisti collettivi, c’è un indotto fatto di autotrasportatori che smistano ai punti vendita, incassando da ognuno 5 euro. Per gli alcolici l’approvvigionamento avviene invece ai supermercati.
Si legge nel rapporto che ad esempio, nelle zone di San Lorenzo e Pigneto – i quartieri della movida per eccellenza e della gentrificazione selvaggia, attraversati quotidianamente da migliaia di giovani studenti e lavoratori – i negozianti bengalesi vendono prevalentemente bibite ed alcolici.
Sfruttano le offerte della Grande distribuzione per le bevande gassate e l’acqua e sporadicamente si riforniscono al mercato rionale di Piazza Vittorio: quattro o cinque cassette di ortofrutta con patate, cipolle, pomodori, insalata, radici di zenzero e spicchi d’aglio, assediati da flaconi di shampoo e saponi, conserve di ogni tipo e bottiglie di vino. In questo caso, la verdura è da considerarsi un “prodotto civetta” dal prezzo infinitamente basso, che attira il consumatore.
Il cliente, cioè, entra attirato dalle cassette esposte all’esterno, su cui svettano targhette con prezzi stracciati (0,99 centesimi), ma acquista soprattutto bibite e prodotti casalinghi. Invece nel quartiere Trieste, nella zona nord di Roma, abitato soprattutto da famiglie, frutta e verdura di una qualità nettamente superiore predominano sugli scaffali e sui banconi dei minimarket. Qui il prezzo della merce è superiore ed oscilla da negozio a negozio.
“Negli ultimi anni la qualità e la selezione è migliorata, ma gli utili non sono alti. Un commerciante bengalese è contento se entrano 50-60 euro al giorno, quindi sui 1.500 euro al mese. Se un italiano invece non ha un utile di 3.000 euro al mese, chiude, perché con 1.500 euro non potrebbe mai vivere”, afferma Batchu intervistato dai giornalisti.
Ma la qualità?
Sul fronte dei prodotti, Terra! ha scoperto che la qualità sta migliorando, specialmente nei quartieri più benestanti: se negli anni 2000, con il primo fiorire di frutterie egiziane, la merce in vendita era di terza categoria (stock misti), oggi la scelta è più accurata e risponde meglio alla domanda della clientela.
Quel che ancora manca praticamente ovunque è però la trasparenza: in quasi tutti i negozi non si ritrovano le etichette che certificano la provenienza dei prodotti.
Da dove arrivino questi prodotti? È impossibile capirlo.
Un’altra inchiesta che potrebbe interessarvi:
Dominella Trunfio