Etichettare i cibi secondo una scala di maggiore o minore impatto ambientale potrebbe agevolare i consumatori a fare scelte consapevoli.
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Il settore alimentare rimane uno dei principali responsabili delle emissioni di gas serra e in Italia l’85% delle emissioni nel settore alimentare riguarda cibi di origine animale. Etichettare i cibi secondo una scala di maggiore o minore impatto ambientale potrebbe agevolare i consumatori a fare scelte consapevoli. Ma è una strategia che tardi ad applicarsi
Quanto ci costa, in termini ambientali, produrre carne, uova e formaggi? E quanto importare una banana dall’Ecuador? Dati alla mano, il settore alimentare concorre per almeno un terzo alle emissioni globali di gas serra. Una quota enorme, che varia tra il 25% e il 42% a seconda del Paese europeo.
In vista degli impegni presi per lo European green deal, che prevede la neutralità climatica entro il 2050 e la riduzione del 50% delle emissioni entro il 2030, bisognerebbe fare qualcosa di concreto, in primis limitare la capacità inquinante proprio di questo settore. Ma come?
Ne parla la Fondazione Openpolis in un’interessante inchiesta, mettendo in ordine gli alimenti di consumo comune in una scala di maggiore o minore impatto ambientale.
Le etichette a semaforo
Tempo fa è stata proposta l’etichetta “a semaforo”, simile a quelle relative all’efficienza energetica degli elettrodomestici, che indicherebbe le quantità di CO2 associate al prodotto che si intende acquistare.
Al momento, su molti prodotti già si trovano etichette che indicano se l’alimento in questione è stato prodotto secondo certi standard, come per esempio l’etichetta attribuita ai prodotti biologici o del mercato equo-solidale.
Ma ce ne sono molte altre – spiegano da Openpolis. Queste etichette, chiamate anche etichette singole, aiutano i consumatori a compiere una scelta consapevole quando fanno acquisti e indicano anche l’impegno delle aziende verso standard elevati di produzione. Si tratta però di strumenti limitati, perché forniscono informazioni su un singolo aspetto del processo produttivo. Alcune poi sono ideate dalle stesse aziende produttrici, che in diversi casi non sono trasparenti rispetto ai criteri seguiti e si limitano a utilizzare termini generici come “green” o “ecologico”.
Un’etichetta prodotta sulla base di standard definiti chiaramente e che tenga in considerazione vari fattori ambientali non solo sarebbe capace di fornire informazioni più complete ai consumatori, ma potrebbe essere anche uno strumento efficace per ridurre le emissioni legate al settore alimentare. E a confermarlo è anche una ricerca dell’Università di Oxford, secondo cui le etichette sono effettivamente in grado di influenzare le decisioni dei consumatori e portarli finanche a prediligere i cibi meno inquinanti.
L’inquinamento generato dai prodotti alimentari
Tutti quelli provenienti da allevamento e coltivazione, e quindi dall’utilizzo di suolo, sono gli alimenti più inquinanti. Certo, i trasporti sono anch’essi inquinanti ma causano in realtà una quota piuttosto ridotta delle emissioni totali.
Ad esempio, dicono da Openpolis, l’impronta ecologica di una banana importata in Europa dall’Ecuador è inferiore rispetto a quella di un formaggio prodotto in una fattoria locale. In media, l’80% delle emissioni di gas serra causate dal consumo di cibo, in Unione europea, provengono dagli alimenti di origine animale.
Nella tabella che segue i dati riguardano i gruppi alimentari e il loro contributo (come quota del totale) al rilascio di CO2 nel settore. Le categorie “Carne, uova” e “Latticini” includono anche l’anidride carbonica derivante dalla produzione di mangimi:
In Italia, Lituania, Repubblica Ceca e Grecia, la quota arriva fino all’85%, mentre il dato più basso si registra in Bulgaria, dove ammonta al 75%.
I limiti del Nutri-score
Con la strategia Farm to fork, che è al centro del Green Deal europeo con l’obiettivo di rendere i sistemi alimentari più equi, sani e rispettosi dell’ambiente, l’Europa mirerebbe ad armonizzare anche l’etichettatura dei cibi entro la fine del 2022 su tre principali proposte. Tra queste, proprio il Nutri-score, che classificherebbe gli alimenti secondo le loro qualità nutrizionali.
Leggi anche: Etichette alimentari: al via in Francia il semaforo Nutri-score. Come funziona e quali rischi per il Made in Italy?
Poi, un’etichetta riguardo il benessere degli animali durante il processo produttivo e un possibile ampliamento della gamma di prodotti per cui deve essere indicato il paese di origine. Non è ancora certo che la valutazione ambientale venga inclusa nel Nutri-score.
Tuttavia, secondo uno studio del 2020, più della metà della popolazione europea vorrebbe avere un’idea più chiara dell’impatto ambientale dei cibi da loro consumati.
A giugno del 2020, un’iniziativa di cittadini europei ha proposto l’introduzione di un Eco-score, prendendo spunto dai progetti nazionali lanciati da alcuni paesi membri tra cui la Francia e la Germania. Un altro programma pilota, cui hanno partecipato una serie di grandi imprese, è quello dell’”Enviroscore“, che ha preso il via nell’autunno 2020.
Il rischio che queste iniziative non abbiano effetti sostanziali, ma solo di facciata, è sempre alto – concludono da Openpolis. Il principale elemento critico sono i criteri utilizzati per la formulazione delle etichette. Spesso, questi trascurano aspetti importanti come l’uso di pesticidi, la biodiversità, il benessere animale e ambientale. Questioni che sono state incluse, per esempio, nel sistema di etichettatura francese “Planet-score”.
Per contrastare efficacemente il fenomeno, insomma, la soluzione migliore sarebbe quella di avere un’unica modalità di etichettatura a livello europeo.
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Fonte: Openpolis
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