Lo standard MSC (Marine Stewardship Council) è il più grande programma di certificazione della pesca del mondo che garantisce la sostenibilità di questa pratica. Ma è davvero così? Un’inchiesta di The Guardian mette in dubbio le garanzie offerte da questa etichetta.
L’etichetta MSC dovrebbe garantire la sostenibilità nelle operazioni di pesca ma il quotidiano The Guardian si chiede se la nota certificazione non sia in realtà solo una strategia di marketing. Il dubbio viene considerando la situazione delle balene franche (Eubalaena) nel Nord Atlantico che, in grave pericolo (ne restano solo 356), rimangono impigliate negli attrezzi per la pesca, anche di quelle compagnie poi certificate con il noto marchio di qualità ecologica della pesca, considerato da molti il migliore.
Questo mese, si legge su The Guardian, due balene franche nel Golfo di San Lorenzo sono state trovate impigliate negli attrezzi da pesca. Una femmina, è stata avvistata per la prima volta al largo di Cape Code l’anno scorso, ma i soccorritori non sono stati in grado di liberarla completamente; l’altro invece era un maschio e si crede sia rimasto impigliato nel Golfo.
La principale minaccia rimane il contatto umano: restare impigliate negli attrezzi da pesca o scontri con le navi. Gli incontri fatali, causati in parte dallo spostamento migratorio delle balene nelle zone dei granchi delle nevi canadesi, sono aumentati vertiginosamente: più di un decimo della popolazione è morta o è rimasta gravemente ferita tra il 2017 e il 2021, soprattutto in Canada e nel New England.
Una delle minacce che devono affrontare le balene proviene dalla crescente pesca di granchi e aragoste. Quando queste migrano dalla Florida per nutrirsi in Canada, entrano in contatto con le compagnie di pesca. E in questo caso rischiano di morire in modo “davvero traumatizzante”, come ha dichiarato Kate O’Connell, consulente per la fauna marina per l’Animal Welfare Institute.
Se una balena rimane impigliata, le corde delle boe in superficie e le trappole sul fondo possono incastrarsi nella sua pelle, appesantendo l’animale e rendendolo incapace di nuotare o nutrirsi correttamente, portando infine ad una morte davvero dolorosa.
Ma ciò che lo rende ancora più preoccupante per gli ambientalisti è che alcune delle attività di pesca che sembrano minacciare la balena franca sono state certificate come ‘sostenibili’ dal più grande programma di certificazione della pesca del mondo: il Marine Stewardship Council.
L’MSC è passata da 315 attività di pesca certificate nel 2017 a 421 ( il 14% di tutti gli sbarchi globali di pesce). Nell’ultimo anno i prodotti con la sua etichetta avevano un valore di 12 miliardi di dollari.
Già il controverso documentario di Netflix Seaspiracy aveva accusato l’etichetta di certificare anche con un alto livello di “catture accessorie”, ovvero di specie che non interessano ai fini della pesca, come delfini e tartarughe, che vengono però catturate nelle reti.
Ed è proprio quello che gli ambientalisti criticano maggiormente a questa certificazione, ovvero di non tenere bene conto del problema degli animali marini, in particolare squali e cetacei, che finiscono erroneamente negli attrezzi per la pesca. Nel 2018 sono stati diversi gruppi di conservazione e accademici (66 riuniti insieme) ad accusare l’MSC di non proteggere al meglio le specie non coinvolte direttamente nella pesca.
Il MSC ha negato le accuse e, insieme a diverse altre organizzazioni, ha accusato i registi di Seaspiracy di fare affermazioni “fuorvianti”.
Ma, scrive The Guardian:
La difficile situazione delle balene franche mostra quanto sia sottile il confine che MSC deve percorrere, tra gli ambientalisti e l’industria della pesca, e ha riacceso un acceso dibattito su cosa significhi vedere un’etichetta MSC blu su una confezione di pesce al supermercato. Certamente, la presenza di attività di pesca certificate MSC lungo la rotta migratoria di uno dei mammiferi più a rischio del mondo è diventata emblematica delle contraddizioni che l’organizzazione deve affrontare. Anche una balena morta all’anno avvicina la specie all’estinzione.
I critici sostengono poi che la natura stessa del modello MSC, con le aziende che pagano per essere certificate, pone un conflitto di interessi che non porta a nulla di buono.
L’MSC, il più grande sistema di certificazione della pesca al mondo, è ancora idoneo allo scopo? La situazione sembra essere parecchio controversa.
Alcuni ritengono di si, come Ruth Westcott, coordinatrice della campagna presso l’alleanza ambientale Sustain, che ha dichiarato come, in assenza di precise scelte politiche finalizzate a prendersi cura degli Oceani, parlando di etichette e standard:
il MSC è sicuramente il migliore che abbiamo.
Anche noi ne avevamo parlato in buona fede nel seguente articolo dedicato all’importanza della pesca sostenibile: Pesca sostenibile: perché è così importante per tutti noi e per il nostro Pianeta.
Attualmente per avere l’etichetta MSC l’attività di pesca viene controllata da organismi “organismi di valutazione della conformità” (Cab) indipendenti che si occupano di visitare le zone di pesca valutando tutti i dati disponibili. Occorrono fino a 18 mesi per tutta la procedura e le organizzazioni ambientali nel frattempo possono opporsi alla certificazione se ritengono che non sia sufficiente ponendo condizioni aggiuntive. Un sistema che effettivamente sembra funzionare, considerando che un quarto di tutte le nuove valutazioni negli ultimi 5 anni non sono giunte alla fine al rilascio dell’etichetta.
Tutto questo però potrebbe non bastare, considerando ad esempio la situazione delle balene franche. Ma forse qualcosa si muove, sia pure lentamente. MSC ha infatti fatto sapere che sta rivedendo i suoi standard di pesca necessari per ottenere la certificazione. Si tratterà di un “approccio più precauzionale” nei confronti delle specie maggiormente a rischio e protette. I cambiamenti però non entreranno in vigore almeno fino al 2023-2025, con una differenza tra nuove attività di pesca e quelle già certificate.
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Fonte: The Guardian
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