Chiquita perde il bollino blu: la verità dietro il simbolo che non protegge né i lavoratori né l’ambiente

Nella sentenza della Corte Ue appena pubblicata i giudici enfatizzano il carattere anonimo del famoso ovale blu: secondo loro non possiede "caratteristiche facilmente e immediatamente memorizzabili". Ragione per cui lo possiamo trovare su tutta la frutta fresca

Al di là di qualsiasi considerazione etico-ambientale, quel bollino blu è un po’ diventato un’icona, segno distintivo delle banane, che diventa anche rosa quando c’è da fare la campagna sulla consapevolezza del cancro al seno, per esempio. Icona sì, ma non da proteggere.

Secondo una sentenza della Corte Ue, infatti, l’ovale blu non può essere marchio protetto: né la forma (una forma geometrica), né lo schema di colori gli conferiscono un adeguato carattere distintivo.

La Corte di Giustizia dell’Ue ha confermato, insomma, che il marchio depositato da Chiquita Brands non soddisfa i requisiti per la protezione come marchio dell’Unione per la frutta fresca.

E, attenzione, non si parla del marchio con l’aggiunta della nota figura femminile stampata su di esso o del nome dell’azienda, ma dell’ovale blu e giallo sottostante. Il simbolo dell’azienda statunitense era stato registrato presso l’Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale (EUIPO) per diversi alimenti, tra cui la frutta fresca.

Cosa è accaduto

Il contenzioso è nato nel 2020 dalla richiesta di una società francese, Compagnie financière de participation (concorrente di Chiquita Brands), di dichiarare la nullità di quel marchio, che non aveva alcun “carattere distintivo”.

L’EUIPO aveva raggiunto un accordo con l’azienda francese e, nel maggio 2023, aveva stabilito che il marchio non era valido per la frutta fresca, comprese le note banane. Il motivo era lo stesso proposto dalla Compagnie: il bollino dei marchi Chiquita non presentava caratteristiche particolari: l’ovale blu e giallo, cioè, sarebbe privo di carattere per distinguere prodotti freschi, comprese le banane.

Inoltre, l’Ufficio europeo per la proprietà intellettuale aveva attribuito ai marchi Chiquita la responsabilità di dimostrare che il simbolo registrato aveva acquisito “carattere distintivo a seguito dell’uso”. Non avendolo fatto, l’azienda con sede in Florida non si era persa d’animo, procedendo a un ricorso per ottenere la revoca della nullità dell’ovale blu e giallo marchiato Chiquita.

La giustizia europea non ha cambiato idea. La Corte ha ribadito che “né la forma né la combinazione di colori blu e giallo del marchio gli conferiscono un carattere distintivo”. Quanto alla forma, la Corte ha stabilito che assomiglia a un ovale senza alcuna caratteristica distintiva e, inoltre, che le etichette di quel genere sono spesso utilizzate nell’industria delle banane (poiché si adattano bene alla forma del frutto).

Anche l’abbinamento cromatico non aveva nulla di originale, essendo un accostamento di tonalità primarie e spesso utilizzato nel commercio di frutta fresca. La conseguenza di questi due elementi è che il simbolo originariamente depositato non possedeva alcun segno distintivo che consentisse di “identificare l’origine commerciale” del frutto venduto dai marchi Chiquita.

La guerra (persa) di Chiquita e i suoi scheletri nell’armadio

Una bella sconfitta a livello commerciale, per una società la cui produzione globale di banane ha implicazioni significative sia sulla sicurezza dei lavoratori che sull’ambiente.

Chiquita – che solo recentemente è stata sanzionata per aver finanziato un gruppo paramilitare – ha nel tempo messo in campo, vero, diverse iniziative per migliorare le condizioni di lavoro nelle sue piantagioni (ad esempio, ha sottoscritto l’accordo IUF-COLSIBA-Chiquita, unico nel settore delle banane, che promuove i diritti dei lavoratori) e, dal 2013, protegge specificamente gli interessi delle donne, affrontando temi come la parità di genere e l’emancipazione femminile. Ma tutto greenwashing? Probabile, se si considera che l’azienda è stata finita sotto la lente di ingrandimento per le condizioni di lavoro nelle sue piantagioni. Nel 2007, l’organizzazione francese Peuples Solidaires ha accusato una sussidiaria di Chiquita in Costa Rica di violare i diritti fondamentali dei lavoratori e di esporli a pesticidi altamente tossici. Così come nel 2019, la rivista svizzera Beobachter ha evidenziato gravi problemi relativi ai diritti dei lavoratori nelle piantagioni di banane in Ecuador, alcune delle quali forniscono Chiquita, denunciando giornate lavorative di 12 ore, salari di povertà e impiego senza contratti.

Il brand ha inoltre intrapreso diverse iniziative per ridurre l’impatto ambientale della produzione di banane, ma da più parti è stato acclarato che fa comunque usto di pesticidi pericolosi oltre i livelli consentiti. Un rapporto del centro danese Danwatch ha documentato l’irrorazione aerea di pesticidi senza preavviso ai lavoratori e la manipolazione di pesticidi senza adeguate protezioni nelle piantagioni in Ecuador che forniscono Chiquita.

Infine, nel 2014, l’organizzazione Water and Sanitation Health (WASH) ha intentato una causa contro la Rainforest Alliance, accusandola di certificare come sostenibili le piantagioni di Chiquita nonostante l’inquinamento delle acque potabili con fertilizzanti e fungicidi in Guatemala.

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