Il vero costo delle borse Dior, prodotte per 53 euro da lavoratori cinesi sfruttati e rivendute a 2.600

Nuovo scandalo nel mondo della moda di lusso. Il tribunale di Milano ha posto sotto amministrazione giudiziaria la Manufactures Dior srl, rivelando gravi episodi di sfruttamento lavorativo nella produzione di alcune sue borse

La celebre casa di moda Dior è finita nella bufera per un’accusa molto grave: lo sfruttamento dei lavoratori cinesi nella produzione delle sue borse, vendute a prezzi esorbitanti rispetto al costo di produzione.

Per questo, il tribunale di Milano ha posto sotto amministrazione giudiziaria la Manufactures Dior srl, la società responsabile della produzione italiana del celebre marchio, a seguito di un’inchiesta della Procura di Milano che ha rivelato gravi episodi di sfruttamento lavorativo sia pur indiretti (più avanti spieghiamo il perché).

L’inchiesta, coordinata dai pm Paolo Storari e Luisa Baima Bollone e condotta dai carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro di Milano, ha accertato che Dior, tramite la sua società controllata, avrebbe esternalizzato l’intera produzione di una parte della collezione di borse e accessori 2024 a società terze, le quali a loro volta appaltavano il lavoro a opifici cinesi. Questi laboratori, privi di adeguate capacità produttive, con lo scopo di abbattere al minimo i costi, sfruttavano manodopera irregolare e clandestina.

La proporzione tra quanto pagato di manodopera per realizzare una borsa e a quanto poi lo stesso prodotto veniva venduto nelle boutique è davvero sconvolgente. Una borsa costava appena 53 euro alla committente Dior che però poi la rivendeva nei negozi al prezzo di ben 2.600 euro.

Nei quattro opifici controllati, situati nelle province di Milano e Monza e Brianza, sono stati identificati 32 lavoratori, sette dei quali lavoravano in nero e due risultavano essere clandestini sul territorio nazionale. Le condizioni lavorative riscontrate erano a dir poco disumane: ambienti di lavoro insalubri, salari al di sotto della soglia minima, orari di lavoro estenuanti e gravi violazioni delle norme di sicurezza, tra cui la mancanza di sorveglianza sanitaria e la giusta formazione.

Cinque titolari di aziende, tutti di origine cinese, sono stati denunciati per caporalato e altre accuse correlate. Sono state imposte ammende per un totale di 138.000 euro e sanzioni amministrative per 68.500 euro, mentre le quattro aziende hanno visto sospesa l’attività per gravi violazioni in materia di sicurezza e utilizzo di lavoro nero.

Il tribunale di Milano in merito a Manufactures Dior srl conclude che:

non ha verificato la reale capacità imprenditoriale delle società appaltatrici, alle quali affidare la produzione e non ha nel corso degli anni eseguito efficaci ispezioni o audit per appurare in concreto le effettive condizioni lavorative e gli ambienti di lavoro. I modelli organizzativi e gestionali della società, almeno allo stato, si sono nel concreto rivelati inadeguati.

Il caso Dior non è isolato

Forse ricorderete che anche altri marchi di alta moda hanno dovuto rispondere di accuse simili. Alviero Martini spa e Giorgio Armani Operations spa, ad esempio, sono finite sotto inchiesta per caporalato. Di entrambe le situazioni vi avevamo parlato in precedenti articoli:

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Le indagini mostrano una tendenza preoccupante nell’industria dell’alta moda, dove delegare unito alla ricerca del massimo profitto portano spesso al risparmio sul costo del lavoro e sulla sicurezza dei dipendenti. Le aziende coinvolte sembrano incapaci di prevenire e arginare lo sfruttamento lavorativo nei loro cicli produttivi.

Il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, già dopo i casi di Alviero Martini e Giorgio Armani aveva espresso la necessità di avviare un tavolo di confronto sul settore della moda per fermare lo sfruttamento lavorativo. L’obiettivo è quello di creare un protocollo con la Prefettura di Milano, l’ispettorato del lavoro e gli operatori del settore per garantire che episodi come quelli riscontrati non si ripetano più.

L’inchiesta ci ricorda (ancora una volta) che dietro il lusso scintillante dei grandi marchi possono nascondersi storie di sfruttamento e ingiustizia che non possiamo più ignorare e tollerare.

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