Dopo Milano, il celebre brand giapponese di moda low cost Uniqlo sta per aprire il suo primo negozio anche a Roma e il bello è che lo farà al posto di una Feltrinelli. Il marchio conta oltre 1.000 punti vendita in tutto il mondo, ma quanto è etico?
Grandi rivoluzioni in quel della Galleria Alberto Sordi a Roma, dove spostamenti di vari negozi vedranno l’apertura di uno dei colossi orientali della fast fashion. Si tratta di Uniqlo, che l’anno scorso aveva alzato le saracinesche anche a Milano, e che – udite udite – prenderà i locali finora occupati da Feltrinelli.
L’unica magra consolazione? È che più in là si aprirà una Mondadori. Ma il punto rimane sempre quello: si dirà nuovamente addio a libri e cultura per dare spazio a un ennesimo marchio di abbigliamento low cost di cui non sentivamo proprio il bisogno.
E il motivo è presto detto: in Italia (ma anche altrove) non si legge più, anche se, secondo l’Associazione italiana editori nel nel 2022 rispetto al 2019 gli italiani hanno comprato 13 milioni di libri in più. Bene, ma non benissimo insomma: rimane fuor di dubbio che tra qualche giorno i romani avranno una storica libreria in meno che darà luogo a un marchio di fast fashion in più.
Uniqlo è un marchio etico?
No.
Uniqlo è una catena di negozi d’abbigliamento low cost, fondata da Hitoshi Yanai in Giappone nel 1949. In origine si trattava solo di una piccola azienda tessile a conduzione familiare, poi, con la morte di Hitoshi nel ‘72, è passata nelle mani del figlio Tadashi, ad oggi uno degli uomini più ricchi del Giappone. Proprio Tadashi ha trasformato la piccola azienda in un colosso della moda low cost.
Si tratta di fast fashion? Certo, anche se dall’azienda tendono a negarlo, basandosi soprattutto sul fatto che i suoi sarebbero capi basic, essenziali e soprattutto evergreen. Ma, esattamente come Zara e H&M, Uniqlo gestisce un modello di business fast fashion che non potrà mai essere rispettoso dell’ambiente dal momento che la produzione di così tanti nuovi indumenti al secondo crea in ogni caso delle enormi quantità di rifiuti ogni anno, oltre condizioni lavorative ai minimi sindacali.
Uniqlo ha inoltre ottenuto un punteggio del 31-40% nel Fashion Transparency Index, probabilmente perché non riesce a elencare pubblicamente i suoi fornitori, e proprio come H&M e Zara, si affida al modello di business del fast fashion per realizzare profitti, anche se non vuole ammetterlo, producendo abbigliamento usa e getta economico su larga scala.
Va da sé che, secondo le stime, non a caso Uniqlo sia il terzo più grande marchio di fast fashion al mondo, il che significa che produce migliaia di modelli ogni anno e li vende a prezzi bassi.
Dal 2014, tuttavia, il colosso giapponese ha cercato di elaborare politiche per migliorare la propria sostenibilità, collaborando con Sustainable Apparel Coalition e quindi formulando un team di esperti che l’avrebbe aiutato a diventare più sostenibile.
Ma rimane il fatto che, guardando mole di produzioni e di vendite, qualità dei tessuti (le ultime collezioni utilizzano fibre altamente inquinanti come rayon, poliestere, nylon ed elastan) e condizioni dei dipendenti (l’azienda è coinvolta in una causa in corso sui diritti dei lavoratori da almeno cinque anni stando a Clean Clothes), Uniqlo non sia un marchio di moda sostenibile
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