Secondo lo studio "Just Fashion Transition 2024" di The European House - Ambrosetti, presentato al Venice Sustainable Fashion Forum, solo un terzo delle principali aziende europee del settore sta procedendo a un ritmo adeguato di decarbonizzazione. Il report analizza le criticità, come i costi degli investimenti in sostenibilità e gli ostacoli burocratici, ma propone anche cinque soluzioni
Quello della moda è un settore che ha un valore inestimabile, più importante anche di quello automotive, tanto in termini di occupati, quanto di produzione di reddito ed esportazione per il Paese.
Tuttavia, oggi il fashion Ue viaggia con otto anni di ritardo sul binario degli obiettivi climatici introdotti dal pacchetto climatico Fit for 55. A dirlo è il nuovo studio “Just Fashion Transition 2024”, realizzato da The European House Ambrosetti, presentato alla Fondazione Cini in occasione della terza edizione del Venice Sustainable Fashion Forum.
Infatti, nonostante un terzo delle 100 più grandi aziende europee del settore moda abbia un ritmo di decarbonizzazione due volte più veloce rispetto ai goals europei, gli obiettivi climatici dell’intero settore fissati per il 2030 sarebbero raggiungibili solo nel 2038. Questo dimostra da un lato che la decarbonizzazione è possibile e dall’altro che il ritardo è significativo per il resto del settore.
Le cause (e gli effetti) di questo ritardo
Dal momento che l’attuale tasso di consumo sembra incompatibile con gli obiettivi al 2030, i consumatori europei potrebbero essere chiamati a rinunciare ogni anno a 1 capo su 3.
In Europa, si stima vengano distrutte ogni anno 264.000-594.000 tonnellate di prodotti tessili (4-9% del mercato). Fino al 79% dello stock invenduto viene recuperato, mentre solo il 57% dei resi online riesce a essere gestito nello stesso modo.
Il nostro Paese ha già istituito sistemi di raccolta differenziata dei prodotti tessili ma solo 3 città su 4 dispongono di strutture adeguate per gestirla, con un potenziale effettivo di raccolta pari a soli 2,7 kg pro capite rispetto ai 23 kg immessi sul mercato ogni anno.
Il costo rappresenta il principale ostacolo alla moda sostenibile tra tutte le generazioni. E anche se il second hand può essere visto come un’alternativa sostenibile al fast fashion, nelle scelte di consumo si osserva un effetto “rimbalzo”: per ogni acquisto di un capo nuovo evitato grazie all’acquisto di seconda mano, se ne comprano in media 1,23 usati.
A ciò si aggiunge il fatto che, secondo un’analisi dei bilanci di oltre 2.686 società, gli investimenti richiesti sembrano difficilmente sostenibili per il 92% delle aziende italiane della filiera.
Le possibili soluzioni
Ma come è possibile invertire la rotta, rigenerando una delle industre di maggior valore della nostra economia? Investendo in innovazione e in una visione di circolarità che coinvolga tutti gli attori del comparto.
A dirlo è Sergio Tamborini, presidente di Sistema Moda Italia, che ha aggiunto in occasione del Venice Sustainble Fashion Forum: “I venti non sono favorevoli, sia per una congiuntura economica avversa, sia per l’addensarsi di nuovi elementi di burocrazia su qualcosa che non dovrebbe mai mettere in discussione la crescita: la certezza del diritto. Vale per un tema come il credito d’imposta sulla ricerca e l’innovazione e vale per la trasparenza garantita da contratti già esistenti e diventato ora un onere a carico della filiera”.
E proprio sulla burocrazia Tamburini ha voluto concentrarsi: “Non vorrei che fossero i burocrati a decretare la fine del settore moda. La sostenibilità non può essere burocrazia. Oggi l’abbiamo ridotta a protocolli e bollini, che garantiscono solo l’aderenza a determinate procedure. Abbiamo dei vincoli europei di forma e non di sostanza: le dogane europee sono dei colabrodo, e alle aziende europee sono imposti vincoli e regole diversi rispetto a quelle estere, con prodotti e condizioni completamente diversi. Spesso la burocrazia non risolve il problema ma lo sposta solo di lato e lo carica sulle spalle di pochi. Non vorrei fossero le aziende della filiera, quelle forse con le spalle più deboli, a caricarsi di questi pesi”.
Oggi le imprese europee del settore moda si trovano di fronte a un bivio: “investire oggi o rinunciare ai ricavi di domani – una bilancia il cui secondo piatto rischia di arrivare nei prossimi 6 anni a pesare fino a 8 volte più del primo”, ha raccontato Carlo Cici, partner & head of sustainability practices di The European House – Ambrosetti. “Credo e spero che le proposte per superare le sfide che ci attendono faranno molto discutere”.
Contenute nel report e raccontate da Cini, le cinque proposte avanzate in occasione dell’incontro veneziano, in vista di una just fashion transition europea al 2030, sono rivolte tanto alle istituzioni quanto agli attori del settore.
Le prime due proposte si focalizzano, da una parte, sulla chiusura, la più celere possibile, del gap regolatorio, favorendo il percorso delle aziende verso decisioni di medio-lungo periodo, dall’altra sulla semplificazione degli strumenti finanziari per le piccole e medie imprese. Come? Favorendo il loro investimento nella sostenibilità, fornendo loro un accesso facilitato al credito.
Seguono due proposte rivolte agli attori del settore: costruire e diffondere a livello nazionale competenze e centri di ricerca; sviluppare un piano strategico nazionale per identificare modalità per integrare i costi della sostenibilità nelle strutture di prezzo. Infine, concentrare il mercato per aumentare per la competitività.
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