Shein di nuovo nella bufera (e ci trascina pure le influencer invitate in Cina per ripulire l’immagine)

Il tentativo dell'azienda di e-commerce cinese di confutare le accuse di lavoro forzato e cattive condizioni di lavoro è stato un buco nell'acqua. Le influencer invitate in Cina sono state subissate di commenti negativi tanto che (alcune) hanno chiesto anche scusa

Un tentativo miseramente fallito di indorare la pillola, cercando di rimescolare le carte e far vedere solo il bello. Un vero e proprio buco nell’acqua, una manovra nemmeno troppo celata di greenwashing bello e buono.

Siamo in Cina e qui il colosso dell’ultra fast fashion Shein ha pensato bene di chiamare a raccolta una serie di influencer statunitensi per far bella mostra di sé e raccontare ciò che di vero non ha proprio nulla: il fantastico mondo dorato di fabbriche in cui si lavorerebbe dignitosamente.

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Le influencer lo hanno fatto, sono andate al viaggio stampa strapagato (e in hotel di lusso), ma che guaio. Perché il mondo dei social non perdona ed è montata una polemica online attorno a tutti quei video che quelle ragazze hanno postato.

Mi sento più fiduciosa che mai della mia collaborazione con Shein, aveva scritto la modella Dani Carbonari sul suo account Instagram.

https://www.instagram.com/p/CtfX08FvBDW/

Mi aspettavo che questa struttura fosse così piena di persone che si limitavano a sgobbare, ma in realtà sono rimasta piacevolmente sorpresa.

Non stavano nemmeno sudando, aveva sostenuto un’altra:

https://www.instagram.com/p/CtnPlOMpO_M/?hl=en

Insomma, centri di produzione luminosissimi, gente sorridente, macchinari di ultima generazione: nei video delle influencer tutto si vede tranne ciò per cui abbiamo conosciuto Shein in questi anni, fatto di fabbriche del sopruso e dell’abuso, di pratiche non etiche e ambientalemente dannose.

Tutto ciò che abbiamo sempre saputo su Shein si tratta di rumours, incalza piuttosto Dani Carbonari che, tuttavia, dopo le molte critiche, ha pubblicato un video in cui spiega di aver sbagliato e chiede scusa per “non aver fatto abbastanza ricerche” su Shein:

Se Shein abbia effettivamente creato una fabbrica finta per un press tour organizzato a tavolino non è ancora dato saperlo, ma quel che è lapalissiano è che si è trattato di una bella operazione di greenwashing. Gli utenti dei social se ne sono accorti, al netto dei commenti d’odio da cui vanno prese in ogni caso le distanze.

La risposta di Shein

Il colosso cinese ha rilasciato la seguente dichiarazione:

SHEIN si impegna per la trasparenza, e questo viaggio riflette un modo in cui stiamo ascoltando i feedback, offrendo l’opportunità di mostrare a un gruppo di influencer come funziona SHEIN attraverso una visita al nostro centro di innovazione e consentendo loro di condividere il proprio punto di vista con i loro follower. I loro video e commenti sui social media sono autentici e noi rispettiamo e sosteniamo la prospettiva e la voce di ciascun influencer sulla sua esperienza. Non vediamo l’ora di continuare a fornire maggiore trasparenza sul nostro modello di business e sulle nostre operazioni on-demand.

Il controllo del Congresso americano

Shein gode di particolare popolarità tra la Gen Z, forte della sua pubblicità su app come TikTok e degli stretti rapporti con gli influencer che coltiva, oltre – ovvio -, ai prezzi stracciati che mantiene. Ma la sua fulminea ascesa è in realtà arrivata poi, con un esame approfondito di quelle che sono le pratiche di lavoro in Cina, in particolare quando i legislatori occidentali hanno lanciato allarmi sull’uso del lavoro forzato nella regione cinese dello Xinjiang, a lungo uno dei principali fornitori globali di cotone.

Ad aprile, una commissione del Congresso degli Stati Uniti ha affermato che Shein, il superstore online Temu e altri in Cina avevano legami proprio con il lavoro forzato all’interno della loro catena di approvvigionamento di materiali, citando anche rapporti relativi a violazioni del lavoro nelle fabbriche affiliate, nonché problemi di rischi per la sicurezza dei prodotti e furto di proprietà intellettuale.

L’anno scorso, il più alto ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato che la Cina ha commesso “gravi violazioni dei diritti umani” contro le minoranze musulmane uiguri nello Xinjiang, che potrebbero costituire “crimini contro l’umanità“.

E Shein? Ha sempre negato e difficilmente uscirà sconfitta da questo polverone. Il motivo? Secondo la giornalista Heather Tal Murphy i contenuti pubblicati dalle influencer criticate in questi giorni rappresentano solo una minima parte di quelli che ogni giorno vengono pubblicati sui social, dove la presenza di Shein è ormai capillare.

Spesso la persona che parla alla telecamera include il codice prodotto, il prezzo e un commento intelligente. Altri semplicemente lasciano brillare il nome Shein, senza note. È una specie di QVC dell’era dei social media, ma i prodotti in questione sono venduti da una terza parte e il volume e la varietà sono un punto di forza chiave sia per il marchio che per il consumatore che mostra i suoi ultimi acquisti.

Poi c’è il semplice fascino dell’estrema economicità: la gente pensa di fiutare un buon affare e i prezzi di Shein “sono letteralmente imbattibili“.

E si ricomincia, in un terrificante valzer da cui solo un colosso che sfrutta lavoratori può uscire vincitore.

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Fonti: CNN / Shein / Slate

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