Nove anni fa il collasso del palazzo Rana Plaza in Bangladesh, un evento che ha scosso il mondo e fatto vedere la condizione di lavoro di quanti confezionano abiti. Come ogni anno il movimento no-profit Fashion Revolution torna a chiedere giustizia salariale. Ma da allora cosa è cambiato? I nostri vestiti "puzzano" ancora di sostanze chimiche, sfruttamento degli operai, discariche di tessuti bruciati. Da quel 24 aprile 2013, dove morirono 1134 persone e circa 2500 feriti, troppo poco è cambiato
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Torna la Fashion Revolution Week, una settimana di eventi e incontri per approfondire, condividere e agire. Promossa dal movimento globale Fashion Revolution si batte per una moda trasparente, sicura, equa, responsabile; il tema di quest’anno è Money Fashion Power:
l’industria della moda tradizionale si basa sullo sfruttamento lavoro e delle risorse naturali. La ricchezza e il potere sono concentrati nelle mani di pochi, e la crescita e il profitto sono premiati sopra ogni cosa. I grandi marchi e i rivenditori producono troppo in fretta, e ci manipolano in un ciclo tossico di sovraconsumo.
Il movimento è nato all’indomani del collasso del palazzo Rana Plaza del 24 aprile 2013 dove morirono 1134 persone e circa 2500 feriti.
Venne giù un intero edificio commerciale di otto piani a Savar, in un sub-distretto di Dacca, la capitale del Bangladesh che diventò il simbolo del lato opaco della moda. Un evento che ha scosso il mondo intero e ha fatto alzare quel sottile velo che copriva le tacite distorsioni di un settore in continua espansione, come sempre a scapito di lavoratori sottopagati e vessati così come dell’ambiente.
Un manifesto per la trasparenza della moda
Cosa chiede queste movimento al potente e variegato settore del fashion? Leggi sovranazionali che garantiscano una retribuzione giusta ai tanti lavoratori invisibili di questo comparto strutturato in scatole cinesi, una maggiore sicurezza delle condizioni di impegno e attenzione all’ambiente.
Quell’evento di nove anni fa ha fatto vedere ai più come si lavorava e si lavora ancora per produrre, senza sosta, indumenti che finiscono brevemente nei nostri armadi e poi terminano la loro vita nelle discariche.
Da allora a oggi le cose non sono cambiate abbastanza perché, nella frammentazione delle linee di produzione, diventa quasi impossibile introdurre e garantire salari decenti e condizioni lavorative adeguate.
Sovrapproduzione, la malattia di molti brand
È una relazione complicata quella tra moda, trasparenza e sostenibilità. Le cose cambiano non sempre con la velocità che vorremmo sebbene esiste un movimento lento che sta rendendo brand, più o meno altisonanti, attivi in questo senso.
Nel periodo più intenso della pandemia da Covid-19 le abitudini di acquisto hanno visto un cambiamento radicale, per necessità e per facilità, verso l’e-commerce. La fortuna di tante realtà, in particolare della fast-fashion, che hanno intensificato come non mai le loro realizzazioni. Tantissima offerta e prezzi stracciati per mantenere viva una domanda crescente di abiti.
Di certo non si può pensare che un capo ultra economico, realizzato dall’altra parte del mondo e che arriva nelle nostre case in pochi giorni, possa essere confezionato nel rispetto di chissà quali regole dalla qualità dei materiali, alla dubbia lavorazione passando per le spedizioni, smistamento nei centri di distribuzione fino all’arrivo alla porta di casa. Tutto questo ci fa domandare: in questi 9 anni trascorsi dal quel crollo cosa è cambiato?
Tra i lavoratori del tessile in Bangladesh
La documentarista e produttrice americana Livia Firth è tornata diverse volte in Bangladesh per vedere con i suoi occhi se e come le cose stessero cambiando. Nel 2021 ha realizzato il documentario Fashionscape: un salario di sussistenza per raccontare la quotidianità di quanti sono intrappolati in contesti malsani, dalla paga alla vita in fabbrica dove si lavora in batteria e si subiscono vessazioni e violenze.
Livia, non cambierà nulla finché non ci sarà un accordo transnazionale sui salari altrimenti, i marchi continueranno a passare da un paese all’altro alla ricerca della produzione più economica.
Una raccolta di testimonianze che raccontano quanto ancora c’è da fare perché i lavoratori dell’abbigliamento muoiono ancora per disastri in fabbrica, sopportano orari disumani, subiscono violenze dai superiori.
Rispetto a dieci anni fa la produzione e il consumo di abbigliamento è cresciuto ovunque ma i salari di questi lavoratori rimangono gli stessi. La documentarista offre un’amara riflessione: il “vero costo” del fast fashion è pagato dai lavoratori ovunque siano dislocati.
Il ciclo di vita di un indumento
C’è anche chi ha deciso di seguire il ciclo di vita di un indumento come Maxine Bédat. La fondatrice del ThinkTank New Standard Institute, che si occupa di monitorare i dati di questo comparti, ha realizzato un libro dal titolo emblematico Svelato: la vita e la morte di un indumento. Un viaggio di due anni iniziato sui campi di cotone, distrutti dagli agenti chimici usati per la sovrapproduzione tessile.
Maxine ha seguito il cotone grezzo dal Texas alla Cina dove viene filato con il poliestere per una produzione infinita di bobine, nelle stesse fabbriche che sversano sostanze chimiche in fiumi oramai putridi.
Ha proseguito per il Bangladesh dove ha incontrato delle donne che assemblano quelle stoffe e, ironia della sorte, alcune sono rifugiate climatiche oggi impiegate in un’industria che contribuisce a non fermare l’emergenza climatica. Di nuovo a casa ha visitato i centro di distribuzione fino all’ultima fermata, in Ghana, nelle discariche a cielo aperto con fiamme alte e nuvole nere da esalazioni tossiche per i tessuti che vengono bruciati.
La Commissione Europea ha recentemente avviato un primo pacchetto di proposte per rendere i prodotti dell’abbigliamento più sostenibili e per promuovere modelli di economia circolare con obiettivo 2030. Non è lontano ma c’è bisogno di accelerare, moltissimo, perché questo vorrebbe dire aver onorato tutte le persone che hanno (già) perso la vita, la dignità e il diritto a una quotidianità in salute e sicurezza.
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Fonti: Fashion Revolution/News Standard Insitute/
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