Primark lancia collezione con cotone sostenibile, ma costringe le lavoratrici a produrre fino a 1200 capi al giorno

Immancabili anche per i marchi che promuovono la sovrapproduzione ai danni dell’ambiente e dei lavoratori capi o collezioni green ma che di sostenibile non hanno molto. Una necessità per molte aziende come Primark, di ricostruire un’immagine e una reputazione lontana da scandali e pratiche scorrette

Una collezione realizzata con cotone sostenibile è oramai quasi impossibile da non trovare nelle proposte di ogni marchio, da quello più blasonato a quello più economico. Le filiere sono spesso diverse a seconda della grandezza dell’azienda ma anche dalla quantità di prodotti realizzati.

Per una serie di capi con il talloncino di cartone con la dicitura “realizzato con cotone sostenibile” ce ne sono tantissimi altri prodotti con materiali dubbi e in condizioni di lavoro massacranti.

Questa azione che “puzza” di greenwashing riguarda soprattutto le corazzate del fast-fashion che offrono collezioni nuove ogni mese e coprono un range di prodotti molto vasto, il tutto a prezzi particolarmente abbordabili.

Jeans e pigiami sostenibili

Anche il gigante irlandese Primark ha deciso di avviare una mini produzione di capi realizzati con cotone sostenibile al 100%: prima con una linea di pigiami e ora con quella di jeans skinny da donna acquistabili per meno di 20€.

L’idea è quella di mantenere il prezzo low-cost per un indumento di grande qualità: encomiabile sulla carta ma chi paga veramente per riuscire a rispondere a una domanda sempre così alta con indumento da inviare a tutto il mondo? Parliamo forse di un obiettivo irreale e di un ottimo specchietto per le allodole?

Cotone naturale ma con una filiera opaca

L’obiettivo di Primark è quello di produrre, entro il 2030, capi con fibre di cotone biologiche, riciclate o provenienti dai circuiti virtuosi creati con il programma Primark Sustainable Cotton Programme. Il filato viene quindi coltivato, in teoria, solo con pratiche rigenerative con una minore quantità di acqua, pesticidi e fertilizzanti chimici.

Una filiera che coinvolge piccole realtà e comunità rurali di Paesi come l’India e il Pakistan, CottonConnect e un (anonimo) partner locale.

Non acquistiamo direttamente le materie prime (nemmeno il cotone), ma ci affidiamo ai nostri fornitori e ai loro stabilimenti certificati. Controlliamo però accuratamente la provenienza dei materiali utilizzati nella nostra produzione.

Di certo controllare la filiera quando una parte di questa è sconosciuto sembra un po’ irrealistica come tracciabilità.

Come si certifica la sostenibilità?

Scrivere che si fanno attività encomiabili non vuol dire poi essere realmente sostenibili. E infatti Primark non è tra i marchi che hanno ricevuto la certificazione B Corp, garanzia della sostenibilità di un’azienda nei vari ambiti che la compongono. Esiste dal 2006 e ha valutato oltre 150.000 marchi dove non figurano colossi della moda ultra-rapida che stanno “diventando” etici o che così sono percepiti.

Per ottenerla il marchio deve aver raggiunto standard il più elevati possibili in cinque categorie chiave: lavoratori, ambiente, clienti, comunità e governance. È necessario compilare moduli molto puntigliosi da redigere più volte nel corso del tempo in modo da poter monitorare un andamento costante delle attività in chiave sostenibile. Ma se non si sa, per esempio, da chi si acquista le materie o come vengono trattati i lavoratori forse diventa complesso poter ottenere quella certificazione.

Lavoratori, un capitolo poco meritevole

Un altro aspetto molto discusso e guardato con sospetto per marchi come Primark è proprio quello delle condizioni lavorative. L’azienda ha avviato una collaborazione con il sindacato indiano Self-Employed Women’s Association che promuove i diritti delle lavoratrici indipendenti a basso reddito il programma ma questa è una materia davvero delicata.

Il report dal titolo Unbearable harassment dello scorso aprile, realizzato da Business & Human Rights Resource Centre, aveva denunciato come le lavoratrici indiane del settore tessile che realizzavano capi anche per Primark, erano sottoposte alla produzione massiccia fino a 1200 capi al giorno, senza alcun rispetto per le minime norme igieniche. Negli anni, soprattutto attorno al 2008 e 2009, si faceva luce sull’abitudine di impiego minorile in molte fabbriche fornitrici.

Nel 2014 in alcuni negozi di Belfast chi ha acquistato dei capi ha trovato dei biglietti di sos che denunciavano le condizioni nei laboratori cinesi.

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©Twitter/AmnestyInternational

Nel 2019 c’è stata la protesta dei lavoratori nello Sri Lanka sempre per le condizioni lavorative. Nel marzo 2021 un’altra protesta ha coinvolto dei lavoratori in Myanmar che hanno affermato di essere stati rinchiusi in fabbrica per evitare che potessero partecipare alle proteste sindacali che stavano infiammando il paese.

Primark ha siglato una collaborazione con l’organizzazione internazionale e indipendente Slave-For Alliance che combatte la nuova schiavitù da lavoro. Chissà se qualcosa cambierà per davvero.

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Fonti: B Corp/ Business & Human Rights Resource Centre/Primark

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