Migliaia di morti per vestiti venduti a pochi euro: Rana Plaza 10 anni dopo, cosa è cambiato nella fast fashion?

Il 24 aprile 2013 dovrebbe segnare un punto di svolta per tutti noi. Quel punto in cui apriamo finalmente gli occhi e ci accorgiamo che c’è una parte del mondo in cui i diritti dei lavoratori non sono per nulla tutelati. E si muore

Sono passati dieci anni da quando, il 24 aprile del 2013, il crollo dell’edificio Rana Plaza a Dhaka, in Bangladesh, che ospitava cinque fabbriche di abbigliamento, provocò la morte di almeno 1.132 persone e il ferimento di oltre 2.500.

E non tutti ricordano che, solo cinque mesi prima, almeno 112 lavoratori persero la vita in un altro simile tragico incidente, intrappolati all’interno della fabbrica in fiamme della Tazreen Fashions, sempre alla periferia di Dhaka.

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Questi disastri, tra i peggiori incidenti industriali mai registrati, hanno risvegliato il mondo – anche se in minima parte – sulle pessime condizioni di lavoro dei lavoratori nel settore dell’ultra fast fashion in Bangladesh e in altri Paesi. Si è fatto qualcosa di concreto? Beh, siamo parecchio lontani.

A fronte dei salari più bassi del mondo, milioni di persone (per la maggior parte ragazze e donne) sono esposte ogni giorno a un ambiente di lavoro non sicuro con un’alta incidenza di incidenti, decessi e di patologie. La gran parte delle fabbriche non soddisfa gli standard richiesti dalla legislazione in materia di edilizia e costruzioni. Di conseguenza, sono frequenti le morti per incendi e crolli di edifici.

È cambiato qualcosa dal disastro del Rana Plaza? Poco o nulla, ahinoi. Dal 2013, secondo quanto riferisce l’ILO, l’Organizzazione internazionale del lavoro, si sono verificati non meno di 109 incidenti: tra questi, almeno 35 sono stati incidenti in fabbriche tessili in cui 491 lavoratori sono rimasti feriti e 27 hanno perso la vita.

Cosa significa tutto ciò? Che, in assenza di un sistema di ispezione del lavoro ben funzionante e di adeguati meccanismi di applicazione, il lavoro dignitoso e, di conseguenza, una vita dignitosa, sono ancora lontani dalla realtà per la stragrande maggioranza dei lavoratori dell’industria dell’abbigliamento e per le loro famiglie.

E non solo: l’accesso a una qualche forma di compensazione finanziaria o di sostegno per i familiari che perdono i propri cari potrebbe anche fare la differenza tra la vita in condizioni di estrema povertà, in cui i bambini e gli anziani sono costretti a lavorare per sopravvivere, e la vita con un seppur minimo livello di sussistenza. Invece, ad oggi, l’unica forma di protezione finanziaria disponibile per i lavoratori e le persone a loro carico è prevista dal codice del lavoro, che richiederebbe ai datori di lavoro, quando responsabili, di fornire pagamenti specifici ai lavoratori infortunati o sopravvissuti. Un emendamento al codice, insomma, imporrebbe ai datori di lavoro di assicurare la loro responsabilità, ma questo obbligo non esisteva quando Tazreen ha preso fuoco o quando il Rana Plaza è crollato.

Anche gli importi degli indennizzi previsti sono bassissimi e assumono la forma di somme forfettarie, offrendo una protezione assolutamente poco adeguata dei beneficiari contro la malattia e la povertà a medio e lungo termine. Il sistema è inoltre afflitto da evasione, mancanza di un’adeguata applicazione, assenza di ricorso effettivo, con il risultato che i diritti legali si concretizzano molto raramente. Le cose, insomma, non sono cambiate come avrebbero dovuto.

La chicca? Nonostante l’entità delle perdite subite dalle vittime degli incidenti Tazreen e Rana Plaza e dai loro superstiti, non è stato corrisposto alcun risarcimento in applicazione delle disposizioni del codice del lavoro sulla responsabilità del datore di lavoro.

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Fonte: ILO

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