La volatilità e la flessibilità degli ordini effettuati in alcuni Paesi europei sono agevolate da un sistema di produzione e commercio della stessa Unione europea introdotto negli anni ‘70: il regime di perfezionamento passivo (TPP). Ciò significa che i tessuti, per lo più pretagliati, vengono consegnati a Paesi vicini a basso costo di manodopera, dove vengono eseguite le operazioni di cucitura e finitura, per poi essere reimportati senza dazi doganali. E il TPP crea quindi cluster regionali di povertà, occultamento, paura e informalità
L’industria dell’abbigliamento mette in campo pratiche commerciali scorrette, e non parliamo solo nel sud est asiatico. Anche nel cuore dell’Europa (Italia compresa), quello del tessile è un settore fortemente malato e corrotto.
A confermarlo è un nuovo rapporto pubblicato dal Fair Trade Advocacy Office (FTAO) e basato su una ricerca sul campo condotta da (CCC), che dimostra chiaramente l’esistenza di pratiche commerciali sleali nell’industria europea dell’abbigliamento.
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Basato su interviste a fornitori, esperti e rappresentanti sindacali in sei Stati membri dell’UE – Bulgaria, Romania, Croazia, Repubblica Ceca, Italia e Germania – il report “Fast Fashion Purchasing Practices in the EU. Business relations between fashion brands and suppliers” restituisce una panoramica chiara delle relazioni commerciali volatili, squilibrate e a volte anche rischiose tra marchi e produttori.
Una realtà sconcertante, fatta di ordini piccoli e veloci e soprattutto a basso costo, con tempi di consegna estremamente brevi (a volte 2 settimane) e a condizioni commerciali molto incerte. Le spedizioni, inoltre, avvengono solitamente con camion su strada e, a differenza di navi e container, possono consegnare i prodotti finiti ai negozi in pochi giorni. Come se non bastasse, non esistono dazi doganali in gran parte dell’Europa, né all’interno dell’Unione Europea né all’esterno, poiché l’UE ha concluso accordi di libero scambio con la maggior parte dei Paesi confinanti.
Lo studio
La ricerca ha evidenziato una tendenza generale alla riduzione dei prezzi, all’accorciamento dei tempi di consegna, all’aumento dei cambi d’ordine, all’allungamento dei termini di pagamento e all’aumento dei costi “nascosti”, come la produzione dei campioni iniziali, che vengono trasferiti ai produttori. Tutto ciò mette in difficoltà i fornitori, che non sono in grado di effettuare investimenti né tanto meno pagare gli stipendi.
Il rapporto si concentra su due grandi cluster di produzione di abbigliamento in Europa:
- il sistema moda italiano
- la produzione dell’Europa centro-orientale e sud-orientale
I marchi che si riforniscono dai produttori intervistati includono ASOS, Metro, MS Mode, Moncler e Otto Group. Presenti anche alcuni marchi di lusso, non citati esplicitamente su richiesta dei partecipanti alla ricerca.
I contratti scritti tra acquirenti e fornitori sono rari e, quando esistono, le loro condizioni sono fortemente sbilanciate a favore di marchi e distributori. “Il contratto con Moncler era come un libro, cioè proteggevano così tanto il loro marchio che se pensavano di aver perso un pezzo, potevi trovarti a offrire risarcimenti tali da andare in bancarotta”, ha detto un intervistato. Un altro fornitore ha aggiunto: “Abbiamo voce in capitolo nelle trattative, ma spesso ci fanno pressione. Cerchiamo di resistere. Il processo di negoziazione è lungo e difficile”.
La determinazione dei prezzi è fondamentale, ma di solito inizia con la stima del prezzo al dettaglio desiderato da parte del marchio o del distributore; i materiali, la manodopera e gli altri costi di produzione vengono presi in considerazione solo successivamente. Di conseguenza, la ricerca ha rilevato un divario tra quanto viene pagato ai fornitori per la manodopera e quanto sarebbe necessario per coprire i costi dei datori di lavoro, compresi i contributi previdenziali obbligatori e le tasse.
Quanto all’Italia, ciò significa 18 euro all’ora pagati ai fornitori contro i 24 euro all’ora del costo lordo per i datori di lavoro.
In alcuni casi, i fornitori accettano prezzi bassi solo per mantenere la relazione o per sopravvivere, a volte senza realizzare alcun profitto. Inoltre, quando i fornitori dipendono fortemente da un solo acquirente, il rischio di fallimento è molto alto. Un esempio è la fabbrica di Orljava in Croazia, costretta a chiudere quando il marchio tedesco Olymp ha ritirato gli ordini nel 2020.
La crisi di Covid-19 ha ulteriormente esacerbato gli impatti negativi degli squilibri di potere tra acquirenti e fornitori. Molti marchi hanno annullato o sospeso gli ordini lasciando lavoratori e lavoratrici senza reddito, soprattutto nei Paesi con reti di sicurezza sociale estremamente deboli, si legge ancora nel rapporto.
Cosa fare per cambiare le cose? Tanto logico quanto ovvio: eliminare le pratiche commerciali sleali dalle catene di fornitura tessili. In particolare le organizzazioni, nella parte finale del rapporto chiedono:
- il pagamento degli ordini entro 60 giorni
- prezzi che coprano i costi di produzione e garantiscano salari dignitosi per i lavoratori
- un indennizzo per i cambiamenti degli ordini
- una chiara definizione dei termini di rischio e della proprietà dei beni
Tutte queste raccomandazioni includono anche un appello all’Unione Europea affinché adotti una direttiva che vieti le pratiche commerciali sleali nel settore dell’abbigliamento, come i ritardi nei pagamenti e i prezzi inferiori ai costi di produzione, garantisca un’applicazione efficace della normativa e fornisca indicazioni dettagliate su come i marchi e i distributori possano garantire e sostenere la libertà di associazione, la contrattazione collettiva e i salari dignitosi lungo le loro catene di fornitura.
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Fonte: FTAO
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