Indumenti legati al lavoro forzato uiguro entrano nell’Unione europea. Ne sono a milioni e un nuovo scioccante rapporto rivela proprio il modo in cui l’abbigliamento prodotto dagli schiavi si stia spostando dalla regione uigura al mercato europeo
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Di quanti dei nostri indumenti, dai marchi di fast fashion a quelli più costosi, conosciamo la provenienza? Di quanti conosciamo il modo in cui stati prodotti? Se in Europa esistono svariati controlli, un nuovo studio accusa proprio l’Unione europea di importare abbigliamento cinese lavorato dalla minoranza degli uiguri e da altre minoranze di etnia turca e di religione musulmana, obbligate a produrre abbigliamento in fabbriche contro la loro volontà.
È il “Tailoring Responsibility: Tracing Apparel Supply Chains from the Uyghur Region to Europe”, lo studio fatto in collaborazione tra l’Uyghur Rights Monitor, l’ Helena Kennedy Center for International Justice presso l’Università di Sheffield Hallam e l’Uyghur Center for Democracy and Human Rights, secondo cui decine di marchi noti tra cui H&M e Zara sono ad alto rischio di approvvigionamento di materiali, in particolare cotone e PVC, prodotti da uiguri costretti a partecipare a programmi di trasferimento di manodopera imposti dallo stato.
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Sotto la lente di ingrandimento ben 39 noti marchi. In particolare, i ricercatori hanno indagato su quattro importanti aziende cinesi di abbigliamento che hanno “legami significativi” con lo Xinjiang (la regione nel nord-ovest della Cina dove vive la maggior parte della minoranza etnica uigura del Paese, rappresenta oltre l’80% del cotone cinese), tramite approvvigionamento, filiali e produzione, e hanno legami con marchi occidentali. Secondo il rapporto, tali società hanno fornito marchi tra cui Zara e Primark.
Lo scenario
La regione uigura produce circa il 23% della fornitura globale di cotone e il 10% del PVC mondiale, un materiale chiave nella produzione di indumenti e accessori. Va da sé, quindi, che un’enorme quantità di vestiti e calzature di tutto il mondo rischi di essere implicata nel lavoro forzato del popolo uiguro.
Dal 2017, la RPC ha imposto un sistema senza precedenti di lavoro forzato agli uiguri e ad altri cittadini turchi, a maggioranza musulmana, della regione, attraverso trasferimenti.
Pechino descrive questi trasferimenti come uno strumento di riduzione della povertà: nell’ambito di specifici programmi, i disoccupati vengono trasferiti in fattorie o fabbriche in luoghi diversi dove c’è bisogno di manodopera. Ciò accade nello Xinjiang, come dicevamo, ma anche in altre parti della Cina. Ma attraverso la separazione familiare e l’esproprio della terra, questi schemi stanno eliminando risorse vitali per la continuità della comunità e della cultura. E celano sfruttamento disumano.
Il report
Il rapporto “Responsabilità sartoriale” traccia varie catene di fornitura di abbigliamento dalla regione uigura ai marchi di fascia medio-alta che operano e vendono nell’Unione europea. Per condurre questa mappatura, il team di ricerca ha identificato quattro principali produttori di tessuti e abbigliamento con sede in Cina che hanno legami significativi con la regione uigura, attraverso approvvigionamento, filiali o produzione. Utilizzando fonti disponibili al pubblico, tra cui dati di spedizione, resoconti finanziari e mediatici aziendali, propaganda di stato, dati di telerilevamento e mappe, hanno poi tracciato le catene di approvvigionamento di queste società fino ai marchi e ai rivenditori nell’Ue.
Ebbene, ciò che emerge innanzitutto è che il numero di aziende di abbigliamento identificate in questa mappatura indica che la politica dell’Ue non protegge i suoi consumatori dall’acquisto di prodotti realizzati con il lavoro forzato uiguro.
Gli autori del rapporto evidenziano diversi esempi di aziende cinesi coinvolte in questi programmi. Il Beijing Guanghua Textile Group, ad esempio, ha una joint venture con la Xinjiang Jinghe Textile Technology, un’azienda collegata a programmi di trasferimento di manodopera. Nel 2018, lo Xinjiang Jinghe ha dichiarato che avrebbe investito 200 milioni di yuan per espandere i propri impianti di produzione e impiegare 2mila persone attraverso programmi di lavoro in eccedenza rurale. Nel marzo di quest’anno, un giornale dello Xinjiang ha riferito che 73 “famiglie colpite dalla povertà” avevano inviato lavoratori in azienda per diventare operai dell’industria.
La società madre di Beijing Guanghua, Beijing Fashion Holdings, pubblicizza i suoi legami con una serie di noti marchi occidentali, tra cui Zara e Next. Una delle filiali del gruppo, TopNew, è fornitrice di H&M.
Il rapporto evidenzia, inoltre, anche che le aziende stanno tentando di offuscare la loro partecipazione ai trasferimenti di manodopera imposti dallo Stato. Il rapporto descrive in dettaglio una miriade di tattiche che le aziende stanno adottando per offuscare le loro operazioni nella regione, dal non pubblicizzare più il loro impegno nei trasferimenti di manodopera online al cambiare i nomi delle aziende. Queste strategie indicano che le aziende continuano a trarre profitto dalle pratiche di lavoro forzato sotto un sottile velo di legittimità.
L’esempio degli USA
Infine, il rapporto evidenzia l’efficacia dell’Uyghur Forced Labor Prevention Act degli Stati Uniti nel frenare le importazioni dalla regione.
Era il 2021, infatti, quando la Camera del Congresso degli Stati Uniti votò quasi all’unanimità un disegno di legge che chiede alle aziende cinesi le prove che i loro prodotti non vengano realizzati utilizzando lavoro forzato.
Ne parlammo qui: Gli Usa vietano l’importazione di merci cinesi prodotte dal lavoro forzato degli Uiguri
QUI puoi consultare tutto il rapporto.
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